La società presente come materia romanzabile

di Benito Pérez Galdòs — Che dirvi del Romanzo, senza appuntare alcuna osservazione critica sugli esempi di questa arte sovrana nei tempi passati e presenti, dei grandi ingegni che la coltivarono in Spagna e fuori di essa, del suo sviluppo nei nostri giorni, dell’immenso favore raggiunto da questo incantatore genere in Francia e in Inghilterra, nazionalità maestre in questa come in altre cose dell’umano sapere? Immagine della vita è il romanzo, e l’arte di comporlo si fonda sul riprodurre i caratteri umani, le passioni, le debolezze, il grande, il piccolo, le anime e le fisionomie, tutto lo spirituale e il fisico che ci costituisce e ci circonda, e il linguaggio, che è il marchio della razza, e le abitazioni, che sono il segno di famiglia, e la veste, che disegna gli ultimi tratti esterni della personalità: tutto questo senza dimenticare che deve esistere perfetto equilibrio di bilancia tra l’esattezza e la bellezza della riproduzione.

Si può trattare del Romanzo in due maniere: o studiando l’immagine rappresentata dall’artista, che è lo stesso che esaminare quanti romanzi arricchiscono la letteratura dell’uno e dell’altro paese, o studiare la vita stessa, da dove l’artista prende le finzioni che ci istruiscono e abbelliscono.

La società presente come materia romanzabile, è il punto sul quale mi propongo di avventurare di fronte a voi alcune opinioni. Invece di guardare i libri e i loro autori immediati, guardo l’autore supremo che li ispira, per non dire che li genera, e che dopo la trasmutazione che la materia creata patisce nelle nostre mani, torna a raccoglierla nelle sue per giudicarla; l’autore iniziale dell’opera artistica, il pubblico, il gregge umano, per il quale non vacillo nel chiamarlo vulgo, dando a questa parola l’accezione di moltitudine allineata ad un livello medio di idee e sentimenti; il volgo, sì, materia prima e ultima di ogni lavoro artistico, perché lui, come umanità, ci dà le passioni, i caratteri, il linguaggio, e dopo, come pubblico, ci chiede conto di quegli elementi che ci ha offerto per comporre con materiali artistici la sua propria immagine: in modo che iniziando con l’essere il nostro modello, finisce per essere il nostro giudice.

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Voglio, dunque, esaminare brevemente questo naturale, parlando in termini pittorici, che esteso intorno a noi, ci dice e persino ci comanda di dipingerlo, chiedendoci con ardente suggestione il suo ritratto per ricrearsi in esso, o abominare l’artista con critica severa.
Con esso mi fronteggio valorosamente, e con ogni verità vi dico che anche il mal broncio di questo modello e il suo volto torvo, mi impongono vivissimo turbamento, sebbene questo non giunga alle proporzioni dello spavento che sento di fronte alle biblioteche. L’erudizione sociale è più facile di quella bibliografica, e si trova alla portata delle intelligenze imperfettamente coltivate. Esaminando le condizioni dell’ambiente sociale nel quale viviamo come generatori dell’opera letteraria, la prima cosa che si avverte nella moltitudine alla quale apparteniamo, è il rilassamento di ogni principio di unità. Le grandi e potenti energie di coesione sociale non sono più quelle che furono; né è facile prevedere quali forze sostituiranno quelle perdute nella direzione e governo della famiglia umana. Abbiamo solo un fermo presentimento che queste forze devono riapparire; però le previsioni della Scienza e le divinazioni della Poesia non possono o non sanno ancora alzare il velo dietro il quale si occulta la chiave dei nostri futuri destini.

La mancanza di unità è tale che persino nella vita politica, costruita per natura in raggruppamenti disciplinati, si determina chiaramente la dissoluzione di quelle grandi famiglie formate dall’entusiasmo per l’azione costituente, per affinità tradizionali, per principi più o meno abbaglianti. Perché manchi tutto, scompare anche il fanatismo, che legava in stretti fasci enormi masse di persone, uniformando i sentimenti, la condotta e persino le fisionomie, dal che risultavano caratteri generici di facile ricorso per l’Arte, che seppe utilizzarli per lungo tempo. Le disgregazioni della vita politica sono l’eco più prossimo di questo terribile rompete le righe che suona da un estremo all’altro dell’esercito sociale, come voce di panico che grida allo sbando. Si potrebbe dire che la società giunge a un punto del suo cammino nella quale si vede circondata da ingenti rocce che gli chiudono in passo. Diverse crepe si aprono nella dura e spaventosa rupe, indicandoci sentieri o uscite che forse ci conducono a regioni specchiate. Contavamo, senza dubbio, come instancabili viaggiatori che una voce sovrannaturale ci dicesse dall’alto: si va per di qui, e null’altro che per di qui. Però la voce sovrannaturale non ferisce ancora i nostri uditi, e i più sapienti tra di noi si impigliano in interminabili controversie su quale possa o debba essere la fenditura o passaggio attraverso il quale potremo uscire da questo buco pantanoso nel quale ci rivoltiamo e asfissiamo.

Alcuni che intrepidi si lanciano attraverso tale o talaltra strettoia, ritornano con le mani in testa, dicendo che non hanno visto altro che tenebre e aggrovigliati rovi che ostruiscono il passaggio; altri vogliono aprirlo a forza, con paziente lavoro, o rompendo la pietra con l’azione fisica di sostanze distruttrici; e tutti, in fine, ci lamentiamo, con discorde vocio, di essere finiti in questo angolo dal quale non vediamo il modo di uscire, sebbene ci sarà sicuramente, perché qui non dobbiamo rimanere sino alla fine dei secoli.

In questa moltitudine costernata, che inventa mille artifici per occultarsi la sua propria tristezza, si avverte la decomposizione delle antiche classi sociali forgiate dalla storia, e che erano giunte fino a molto vicino a noi con organizzazione potente. Popolo e aristocrazia perdono i loro caratteri tradizionali, da una parte per lo smembramento della ricchezza, dall’altra per i progressi dell’insegnamento; e il cammino che ancora dobbiamo percorrere perché le classi fondamentali perdano la loro fisionomia, procederà rapidamente. La cosiddetta classe media, che non ha ancora esistenza positiva, è solamente un’informe agglomerazione di individui provenienti dalle categorie superiore e inferiore, il prodotto, diciamolo così, della decomposizione di entrambe le famiglie: della plebea, che sale; dell’aristocrazia, che scende, stabilendosi i disertori di entrambe in questa zona media dell’istruzione (ilustración), delle carriere ufficiali, degli affari, che vengono ad essere la cupidigia (codicia) illustrata, della vita politica e municipale. Questa enorme massa senza carattere proprio, che assorbe e monopolizza la vita intera, assoggettandola a un’infinità di regolamenti, legiferando smodatamente su tutte le cose, senza escludere le spirituali, di dominio esclusivo dell’anima, terminerà per assorbire i rachitici resti delle classi estreme, depositarie dei sentimenti elementari. Quando accade questo, si deve verificare in seno a questa moltitudine caotica una fermentazione dalla quale usciranno forme sociali che non possiamo divinare, unità vigorose che non riusciamo a definire nella confusione e stordimento in cui viviamo.

Da ciò che vagamente e con la mia naturale turpitudine di espressione indico, risulta, nella sfera dell’Arte, che svaniscono, perdendo vita e colore, i caratteri generici che simbolizzavano gruppi capitali della famiglia umana. Persino i volti umani non sono più quello che erano, sebbene sembri assurdo dirlo. Non incontrerete più le fisionomie che, al modo delle maschere modellate dal convenzionalismo dei costumi, rappresentavano le passioni, le ridicolezze, i vizi e virtù. Il poco che il popolo conserva di tipico e pittoresco si stinge, si cancella, e nel linguaggio avvertiamo la stessa direzione contraria al caratteristico, propendendo all’uniformità della dizione, e che tutti parlino allo stesso modo. Nello stesso tempo, l’urbanizzazione distrugge lentamente la fisionomia peculiare di ogni città; e se nelle campagne si conserva ancora, nelle persone e cose, il profilo distintivo del conio popolare, questo si guasta con il continuo passare del rullo livellatore che appiana ogni eminenza, e continuerà ad appianare fino a produrre l’anelata uguaglianza di forme in tutto lo spirituale e materiale.

Mentre il livellamento si realizza, l’Arte ci offre un fenomeno strano che dimostra l’inconsistenza delle idee nel mondo presente. In altre epoche, i cambiamenti di opinione letteraria si verificavano in lassi di tempo di lunga durata, con la lentezza maestosa di ogni crescita storica. Ancora nella generazione che ha preceduto la nostra, vediamo l’evoluzione romantica durare il tempo necessario per produrre una moltitudine di opere vigorose; e nel marcarsi il cambiamento delle idee estetiche, le forme letterarie che succedettero al romanticismo tardarono nel presentarsi con vita, e vissero dopo anni e più anni, che oggi ci sembrerebbero secoli, data la rapidità con la quale si trasformano ora i nostri gusti. Siamo giunti a dei tempi in cui l’opinione estetica, questo ritmo sociale pienamente simile al flusso e riflusso dei mari, determina i suoi mutamenti con tanta capricciosa prontezza, che se un autore lascia trascorrere due o tre anni tra l’immaginare e lo stampare la sua opera, potrebbe risultargli invecchiata il giorno in cui venisse alla luce. Perché se nell’ordine scientifico la rapidità con la quale si succedono le invenzioni, o le applicazioni degli agenti fisici, fa sì che gli stupori di oggi siano le banalità (vulgaridades) di domani, e che ogni prodigiosa scoperta sia subito oscurata da nuove meraviglie della meccanica e dell’industria, allo stesso modo, nell’ordine letterario, sembra che sia legge la volubilità dell’opinione estetica, e di continuo la vediamo passare davanti ai nostri occhi, fugace e bizzosa, come le mode di vestire. E così, in brevissimo tempo, saltiamo dall’idealismo nebuloso all’estremo della naturalezza: oggi amiamo i dettaglio minuto, domani le linee ampie e vigorose; prontamente vediamo fonti di bellezza nell’asprezza filosofica male appresa, come nelle ardenti credenze ereditate.

Riassumendo: la stessa confusione evolutiva che avvertiamo nella società, prima materia dell’Arte romanzesca, ci si traduce in questa nell’indecisione dei suoi ideali, nella variabilità delle sue forme, nella timidezza con la quale intraprende gli assunti profondamente umani; e quando la società ci si converte in pubblico, cioè quando dopo essere stata ispiratrice dell’Arte la contempla con gli occhi di giudice, ci manifesta la stessa insicurezza nelle sue opinioni, per cui risulta che non vanno meno sconcertati i critici che gli autori.

Però non crediate che da ciò che ho esposto cercherò di trarre una deduzione pessimista, affermando che questa decomposizione sociale debba portare giorni di anemia e di morte per l’Arte narrativa. Certo che la mancanza di unità di organizzazione ci va sottraendo i caratteri generici, tipi che la società stessa ci dava abbozzati, come se portassero già la prima mano del lavoro artistico. Però nella misura in cui si cancella la caratterizzazione generale di cose e persone, rimangono più scarni i modelli umani, e in essi deve il romanziere studiare la vita per ottenere frutti di un’Arte suprema e durevole. La critica sagace non può fare a meno di riconoscere che quando le idee e i sentimenti di una società si manifestano in categorie molto determinate, sembra che i caratteri vengano già nella regione dell’Arte segnati da un certo manierismo o convenzionalismo. È che nel decomporsi le categorie, cadono di colpo le maschere, apparendo i volti nella loro pura (castiza) verità.

Perdiamo i tipi però l’uomo ci si rivela migliore, e l’Arte si valorizza solamente nel dare agli esseri immaginari vita più umana che sociale. E nessuno disconosce che, lavorando con materiali puramente umani, lo sforzo dell’ingegno per esprimere la vita deve essere più grande, e il suo lavoro più profondo e difficile, così come è di maggiore impegno la rappresentazione del nudo di quello di una figura carica di indumenti, per attillati che siano. E insieme alla difficoltà cresce, senza dubbio, il valore delle generazioni dell’Arte, che se nelle epoche di potenti principi di unità risplende con vivissimo scintillio di senso sociale, nei giorni incerti di transizione e di evoluzione può e deve essere profondamente umano.

Trovo nel giungere a questo punto che le idee che vado esprimendo, senza nessuna arroganza dogmatica, mi portano a una affermazione che alcuni potrebbero credere falsa e paradossale, ossia: che la mancanza di principi di unità favorisce la fioritura letteraria; affermazione che in buona logica distruggerebbe la leggenda dei cosiddetti Siglos de Oro (Secoli d’Oro) in questa e in altre letterature. È che la storia letteraria generale non ci permette di sostenere in una maniera assoluta che la divina Poesia e arti congeneri prosperino più vigorosamente nelle epoche di unità che nelle epoche di confusione. Forse si potrebbe provare il contrario dopo aver investigato con criterio penetrante la vita dei popoli, facendo più caso alla documentazione privata che alle relazioni della vecchia Storia, comunemente artificiosa e ricomposta. Questa narrazione enfatica e un po’ segnata dal delirio di grandezza, ci parla con tenace preferenza degli alti poteri dello Stato, di guerre, intrighi e favori, dei matrimoni e querelle tra famiglie di re e principi, lasciando in penombra le profondissime emozioni che agitano l’anima sociale. Tenendo in conto di questo, non credo errato assicurare che nei cosiddetti Secoli d’Oro c’è non poco di apparato ufficiale o finzione di palazzo; prodotto di cronisti salariati, o di storici da ufficio, più attenti alla composizione della loro arte che a riprodurre l’interna verità politica. Non danno valore se non a quelle che sono o sembrano essere azioni culminanti e trascurano, come assunto prosaico e futile, il vero sentire e pensare dei popoli.

So bene che questa è materia per un esame lento, e se provassi a sviscerarla, incorrerei nella mia stessa censura, nel lanciarmi in lavori per il cui impegno ho dichiarato la mia inettitudine nelle prime clausole di questo discorso. Con pazienza e libri alla mano tutto si prova, e io proverei a dimostrare ciò che prima ho indicato, se più forza dei miei desideri non avesse la mia incapacità di compulsare testi antichi e moderni. Lascio, dunque, ad altri che delucidino questo punto, e concludo dicendo che il presente stato sociale, con tutta la sua confusione e nervose inquietudini, non è stato sterile per il romanzo in Spagna, e che forse la stessa confusione e sconcerto hanno favorito lo sviluppo di una così bella arte. Non possiamo prevedere fino a dove giungerà la presente decomposizione. Però si può affermare che la letteratura narrativa non deve perdersi perché muoiono o si trasformano gli antichi organismi sociali. Forse appariranno forme nuove, forse opere di straordinario potere e bellezza, che servano da annuncio agli ideali futuri o di commiato da quelli passati, come il Don Chisciotte è l’addio del mondo cavalleresco. Sia quello che voglia, l’ingegno umano vive in tutti gli ambienti, e ugualmente dà i suoi fiori nei portici allegri di fiammante architettura, che nelle tristi e desolate rovine.

**Traduzione / 2016: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati.

NOTA AL TESTO (Note a margine)

(effe) – Non un analitico esercizio di esegesi, ma solo alcune cursorie precisazioni al testo, forse ugualmente utili a chi legge.

I. “La società presente come materia romanzabile” è il tema che Benito Pérez Galdòs (1843-1920) scelse per il suo discorso di entrata nella Real Academia Española de la Lengua (7 febbraio 1897). Secondo l’usanza, come atto ufficiale di accoglienza replicò uno dei soci, il suo amico – sebbene in pubblico polemico avversario in molte questioni ideologiche – Marcelino Menéndez y Pelayo (1856-1912), il quale nella sua lunga (il triplo) Contestación si soffermò a sua volta sul romanzo ottocentesco e sull’opera del “fecondissimo e originale romanziere” Galdós con molte notazioni storiche e critiche ancora oggi, fatta la tara al suo ispanocentrismo viscerale, parzialmente condivisibili. Nel suo discorso Pérez Galdós in parte rettificava, invece, alcuni punti che aveva espresso in un altro suo importante scritto di quasi trent’anni prima, le “Observaciones sobre la novela contemporánea en España” (1870), un esteso articolo giovanile – considerato oggi da alcuni studiosi, con qualche forzatura storica, come il vero e proprio manifesto del “realismo” spagnolo – nato come recensione, pubblicata nella “Revista de España”, ai Proverbios del medico e scrittore Ventura Ruiz Aguilera (1820–1881).

II. Galdós nel rituale gioco accademico vincolato agli obblighi della solennità, enfatizzava molto la sua incapacità critica e il suo “rispetto superstizioso” per le biblioteche. Due, in particolare, i suoi obbiettivi polemici. Da una parte gli eccessi, detto con linguaggio novecentesco, della critica militante, refrattario al “viziato ambiente di questa atmosfera di dispute che autori e critici respiriamo”, insofferenza che ribadirà con ulteriori argomentazioni, di lì a poco, anche nel suo Prólogo del 1900/1901 alla nuova edizione del romanzo “La Regenta” di Leopoldo Alas (Clarín). Dall’altra Galdós aveva di mira gli abusi dell’erudizione bibliografica, spesso ai suoi tempi utilizzata in modo puramente strumentale o come banale arma ideologica ad uso dei retori; cosa che del resto avviene talvolta anche ai giorni nostri perché davvero, volendo, “Con paciencia y libros á mano todo se prueba”, almeno in apparenza.

In verità, non solo acuto e spesso simpatetico osservatore della società del suo tempo ma anche uomo di cultura e grande lettore, soprattutto – chiaro – quando scriveva i suoi romanzi storici Galdós si documentava meticolosamente e anche la sua biblioteca personale, seppure non “monumentale” come quella, ad esempio, del suo amico Marcelino Menéndez y Pelayo che quando morì lasciò in eredità alla sua città natale Santander «su rica biblioteca particular de cuarenta mil volúmenes», non era nemmeno del tutto effimera, accogliendo circa 4 mila volumi in gran parte ancora oggi conservati nella Casa-Museo Pérez Galdós a Las Palmas de Gran Canaria. D’altronde, polemico con l’inerte storiografia convenzionale, non è un caso se tra i suoi più assidui lettori ed estimatori a lui contemporanei ebbe anche uno storico “di professione” che molto lavorò per rinnovarla, Rafael Altamira (1866-1951): Galdós, scrisse alla notizia della sua morte, «Aveva qualità di storico; perlomeno, alcune delle qualità che gli storici necessitano per vedere il passato e ricostruirlo vividamente sulla base (a volte molto stretta e, di solito, fredda, sfilacciata, incoerente) dei resti e delle notizie che giungono alla posterità» (“Galdós y la Historia de España”, 4 gennaio 1920), aggiungendo in un articolo di qualche giorno successivo che «Per la mia generazione, per esempio, e per alcune altre prossime alla mia, con Galdós se ne va tutta un’epoca. In molti potremmo dire come l’eroe di Murger: “È la mia gioventù, quello che seppelliscono”. La nostra gioventù e, anche, la nostra adolescenza» (“Hablemos de Galdós”, 1920) [unitamente ad altri, entrambi gli articoli e i passi citati si leggono in Rafael Altamira, Arte y realidad, Barcelona, Editorial Cervantes, 1921, p. 66 e p. 69]

III. I rapporti tra opere/autori/pubblico, letteratura/società, il frazionamento e “la volubilità dell’opinione estetica”, con l’accelerazione dei suoi ritmi di cambiamento sempre più simili alle rapide innovazioni della tecnica e dell’industria o divenuta ormai “fugace e bizzosa, come le mode di vestire”, la de-mitizzazione dei Siglos de Oro… Sono molti gli spunti offerti da Galdós, alcuni solo accennati. Il testo fu scritto in un periodo in cui erano ovunque in corso grandi trasformazioni sociali, economiche e politiche, un po’ come avviene oggi, con tutti i conseguenti effetti di frammentazione, di decomposizione, dissoluzione e/o mutamento dei cosiddetti corpi intermedi, e di disorientamento diffuso che tutto ciò comporta: questo spiega, per le forti sollecitazioni analogiche, l’aria di famiglia che si respira leggendo molti passaggi dello scritto di Galdós, nonostante le evidenti differenze di contesto storico, nazionale e internazionale. Del resto, ieri come oggi “las previsiones de la Ciencia y las adivinaciones de la Poesía” lasciano il tempo che trovano; in fondo, come ricordava il grande storico contemporaneo Eric Hobsbawm (1917-2012), quella che chiamiamo storia è l’esito temporale sempre aperto di un complesso intreccio di possibilità molteplici e di maggiori o minori probabilità mai del tutto prevedibili, e – nel bene, così come nel male – “la sola cosa certa riguardo al futuro è che esso sorprenderà anche coloro che meglio avranno saputo decifrarne i segni”.

IV. Questa versione del testo che il lettore ha letto od ora può leggere, è probabilmente la prima traduzione integrale del discorso uscita in italiano, pubblicata a 120 anni di distanza dall’originale in lingua spagnola. La cosa però non deve stupire, perché in Italia Benito Pérez Galdós rimane in realtà un caso editoriale ancora del tutto aperto. Alla lunghissima carriera di scrittore di Galdós, durata oltre cinquant’anni, si deve una cospicua produzione narrativa e teatrale, nella sua quantità e nei ritmi quasi fluviali di pubblicazione in parte certamente condizionata, più che da ragioni ideologiche e ideali, dai meccanismi e dai tempi scanditi dall’editoria di mercato della sua epoca, ma che ha comunque sempre conservato alti standard letterari, contribuendo anche in maniera sostanziale a spezzare molte tradizionali rigidità tipiche della prosa narrativa spagnola. Di tutto ciò, ben poco è però accessibile in traduzione per il lettore italiano.

Nel più sopra richiamato Prólogo alla terza edizione del libro di Clarín, Galdós con molto realismo, si passi la misera arguzia, rilevava che “Per nostra disgrazia, affinché l’opera poetica o narrativa raggiunga una longevità perlomeno decorosa non basta che abbia in sé condizioni di salute e robustezza; è necessario che alla sua buona complessione si unisca la perseveranza di autori o editori per non lasciarla languire in un angolo oscuro; che questi la prendano, la ventilino, la presentino, arrischiandosi a lottare ad ogni nuova uscita con l’indifferenza di un pubblico, non tanto cattivo per scarsità quanto per distrazione” (Madrid, Librería de Fernando Fé, 1900, p. VIII).
E le cose si complicano ulteriormente quando le opere devono attraversare non solo i confini di spazio e di tempo, ma anche quelli linguistici.

V. Oggi è ormai sempre più frequente che la grande editoria commerciale, la quale segue tecniche e prassi tipiche di qualsiasi altra industria, immetta fin da subito sul mercato (o i mercati, al plurale, se si preferisce) contemporaneamente al libro in lingua originale anche le versioni già tradotte in varie altre lingue. È una prassi che si è consolidata solo negli ultimi decenni – coinvolgendo sia scrittori “veri” (cioè, letterati professionisti: artisti e/o artigiani, indistintamente) sia effimeri prodotti di laboratorio – ed è un fenomeno complesso ancora poco (se non nulla) studiato a fondo dall’esterno, per così dire. Ad ogni modo, a fine Ottocento / inizio Novecento i percorsi di circolazione extranazionale dei libri erano ancora molto più aleatori e accidentati di oggi, e alla fama internazionale di uno scrittore dal talento largamente riconosciuto, come nel caso di Galdòs, non seguivano necessariamente un numero significativo di traduzioni in lingue straniere.

Durante il secolo scorso i “recuperi” almeno delle opere principali degli autori stranieri di valore sono stati molti, ma Galdós – che pure ha persino lasciato alcune belle pagine di cronaca di un suo soggiorno in Italia nel 1888 (Lucio Basalisco, 2011: Viaggio in Italia di Benito Pérez Galdós) – sembra continuare a fare eccezione, tanto che ancora di recente un ispanista italiano ha dovuto rilevare, auspicando ci sia nei prossimi anni finalmente un’inversione di tendenza, l’attenzione davvero modesta riservata in Italia dalla grande editoria commerciale – ma non solo da quella – alle sue opere, delle quali esistono a tutt’oggi, appunto, solamente pochissime e saltuarie traduzioni (Marco Ottaiano, Cronache di un incontro superficiale: Benito Pérez Galdós e la moderna editoria italiana, in «sinestesieonline», a. II, n. 6, dicembre 2013); del resto, in questo senso è emblematico che il sito della Treccani ripescando negli archivi della sua monumentale produzione enciclopedica non abbia trovato nulla di meglio e di meno datato da riproporre online della voce scritta da Salvatore Battaglia nel 1935.

VI. AVVERTENZA. Per snellire la lettura, nel testo è omesso il preambolo – ovvero, tecnicamente e con le stesse parole di Galdós, “las primeras cláusulas de este discurso” – che ha un interesse più settoriale e storico/documentario; per conservare la completezza e integrità testuale, lo si è comunque pubblicato a parte e il lettore interessato può leggerlo cliccando qui.
Una edizione facsimile digitale dell’edizione originale del discorso (in pdf), comprensiva della Contestación di Menéndez y Pelayo, la si può invece trovare negli archivi online della Real Academia Española.