Contro la moda del derby per una visione politeista dell’Arte

di Alfredo Sgarlato – Quando ero uno studentello alle prime armi, quasi quarant’anni fa, seguivo il corso di psicologia sociale, in cui ci venivano raccontati quegli esperimenti americani, che col senno di poi trovo veramente terribili e disumani, in cui si indagavano i meccanismi di formazione dei gruppi e delle identità. Ricordo tra i tanti questo di Tajfel: a un gruppo di studenti veniva chiesto di indicare quale preferivano tra un’opera di Klee e una di Kandinskij. Quindi, dopo aver svolto un altro compito si chiedeva di distribuire i premi, in alcuni casi a destinatari anonimi, in altri erano indicate alcune generalità di base, in altri ancora si aggiungeva se il possibile destinatario aveva scelto Klee o Kandinskij (ovviamente a caso). Superfluo dire che chi aveva fatto la stessa scelta del premiatore (che fino a poche ore prima non aveva mai sentito nominare i due artisti) veniva premiato maggiormente, mentre in casi anonimi o non connotati la scelta era paritaria.

Paul Klee, Ponte rosso

Esperimenti come questo mostrano l’ineluttabile bisogno umano di sentirsi parte di un gruppo di simili, di un gregge direbbero i più individualisti, di una comunità direbbero i comunitaristi, bisogno che oggi il web ha amplificato rinforzando il fenomeno detto delle “comunità immaginarie”, il cui la passione per un artista sconosciuto ai più o il tifo calcistico diventano, con buona pace dei comunitaristi classici come Kymlica o McIntyre, elemento identitario più forte di appartenenza sociale, territoriale, religiosa. E purtroppo l’appartenenza a un gruppo scatena rivalità, il tifo per l’appunto, non solo in campo calcistico.

Vassilj Kandinskij, Rosso Giallo Blu

Non ne è estraneo il mondo della musica: il derby Beatles – Rolling Stones continua ad essere argomento di prima pagina, e per fortuna pochi ricordano le sfide Duran Duran – Spandau Ballet o Blur – Oasis. Ma continuamente troviamo pseudocritici che cercano di imporre i loro eroi al posto di quelli altrui. Leggevo durante i noiosi giorni del lockdown un orribile articolo, peraltro mal scritto e firmato con uno pseudonimo, accettabile in un blog ma non in una rivista seria, in cui l’autore sbeffeggiava il disco di cui tutti celebravano il quarantennale (“Closer”, Joy Division) per contrapporre il “suo” vero capolavoro (“Empires and Dances”, Simple Minds). L’unico commento sensato è ovviamente: che bello aver ascoltato, anzi consumato, tutti e due. E centinaia di altri bei dischi di molti artisti e generi. Ricordo un’intervista ad Aldo Tassone, critico, organizzatore di festival, biografo di Kurosawa e molti altri, che diceva: «i critici francesi sono monoteisti, per loro esiste solo Renoir!». Ecco, il vero approccio che si deve avere all’Arte è il politeismo.

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Joy Division, Closer

Ciò non toglie si possano avere amori assoluti, fare come gli eroi dei romanzi di Nick Hornby classifiche, playlist, mappe per l’isola deserta. Purché siano ricche, varie molteplici. La bellezza dell’arte, quindi dell’umanità, sta nella sua complessità, mutevolezza, evoluzione. Non trascurare i minori, o presunti tali, e non credere che la musica, il cinema, l’arte figurativa siano finiti quando i nostri preferiti sono entrati in crisi creativa. Porsi dei limiti è sempre la scelta peggiore che si possa fare, ma imporre i propri agli altri è ancora più obbrobrioso.