Michelstaedter: è l’occhio che vede ma non vede…

Empedocle: "A seconda di quanti mutamenti subiscono, di tanto sempre muta il loro pensiero"

occhi Javlensky

(di Carlo Michelstaedter) – Non diciamo che l’occhio quello che vede non vede ma crede vedere, ma l’occhio non mi dice cos’è la cosa che vedo, se io non lo so altrimenti: e quanto è la cosa per me tanto vedo di lei. Quello che l’occhio vede per sé, se io lo costringo a guardare dove già non ha visto, sono linee, linee, colori, colori. Se per «conoscere» una cosa io mi costringo a guardare saprò tutte le sue linee e i suoi colori, e se avrò in testa circoli definitivi dove la tal linea e il tal colore mi valgano come sintomi, segni di riconoscimento, troverò un nome, parlerò di qualità, forma, ecc. Ma della cosa, cosa sia, non saprò di più, ma saprò meno perché costringendo l’occhio a guardare, ho distrutto l’assenso spontaneo (Zenone) e ho guardato non con un occhio vivo, che vede d’ogni cosa quella cosa che appartiene alla sua vita, ma d’un occhio reso indifferente, sciolto negli elementi.


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L’occhio mi può dir della cosa per quanto è visibile quello che il mio assenso individuale determina, esso per sé moltiplicandosi e affannandosi, e microscopandosi – non può niente mutare di questo assenso. Ma è l’assenso il criterio. [Un caso comune: appena conosciuta una persona, o in altro modo notata, la vedo ogni momento per via; prima non la vedevo mai.]. Io so che non convincerò nessuno se gli dico che egli vede il pane diverso prima e dopo il pasto, perché il pane si mangia e non si guarda e non abbiamo di lui una nozione visiva; ma certo ognuno la faccia della persona che egli crede d’amare, dopo… il pasto non gli è più la stessa… il naso non gli è più che quella tal linea che si dice comunemente bella, gli occhi quella tale forma, quei tali colori che si dicono belli, ma tutto ciò gli è indifferente; quello che gli fa differenza è invece ora la bocca, la fronte, la carnagione – e quella tale espressione che non va. Certo ognuno trova il sapore del pane dopo il pasto diverso da prima, e l’odore dell’arrosto nauseante che prima gli era per dio più dolce d’ogni altra cosa… e se dopo il sonno non ha né fame né sete né alcun’altra voglia né alcun lavoro abituale, il mondo gli sarà un non so cosa, dove sono tante cose, che l’una val l’altra, ma non c’è quella che egli vuole, il mondo gli sarà una «noia». Ora quale mondo fra i tanti è il giusto mondo? il buon mondo che resta sempre buono e non si cambia mai e non viene mai a noia ?

Quando mi dice il giusto l’assenso dei miei occhi a proposito delle stesse linee (sulla giustezza delle quali giuro) o l’assenso del mio naso su quell’odore (che io giuro esistente e derivante da quell’arrosto di pollo che giuro indiscutibile) o della lingua sul sapore del vino (nel nome del quale giuro! giuro! giuro!)? Qual è il vero sapore delle cose?

Ben dice l’Ecclesiaste: Il suo tempo…

Ben dice Isaia: hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non intendono.

Perché il mio occhio veda ora come poi, e quello che m’è buono ora mi sia buono poi, bisogna che esso non sia l’occhio della fame, del sonno, della libidine, l’occhio di ciò che si prende giuoco della mia volontà, ma d’una coscienza più vasta di questa mia volontà, che miri a ciò che più durevolmente mi sazi (fonda in loco stabile sua speme) e riguardando all’altro lo veda nel suo giusto valore «sempre», non come indifferente, ma valutato (allo stesso modo che un bevitore sa valutare un vino cattivo anche se non c’è il buono) e veda le cose lontane come le vicine. Perciò dice Parmenide… ed Eraclito…

A cercare questa persuasione io cerco me stesso, e se questo non cerco, che cosa voglio da questo mondo? Meglio sarebbe per me non esser nato.

Ma del nome di questa ricerca vivono i professionisti della filosofia, i quali detengono l’assoluto; pei quali qualunque cosa sappiano non è una cosa che giova o non giova loro, ma messa sotto la tal classe col tal nome essa fa parte dell’assoluto. Ma dei tanti assoluti innocui uno è quello che è da dirsi, è redlich. E poiché le parole e le classificazioni s’imparano, si tramandano, e ognuno può ripetere quello che l’altro dice e rifar le stesse esercitazioni, dall’uno vengono i molti. E le parole, ecc. che avevano il loro contenuto, ecc. servono ora per qualunque ecc.

E fra i tanti assoluti seminnocui quello che più facile, elementare fa il lavoro ai «seguaci della verità», quello doveva diventare il più pernicioso: l’«oggettività» è un fascino. Quando io mi tolgo ogni assenso e guardo la natura con puro interesse scientifico, conquisto un dato assoluto. Togliersi ogni assenso sarebbe una bella cosa, perché allora il primo scienziato sarebbe morto alla prima esperienza e non se ne parlerebbe più; ma togliersi ogni assenso vuol dire privarsi, quando già non si sia da natura privati, d’ogni potere di valutazione, e guardare con la minima vita, «costringersi a guardare», per un qualche bene personale che non mette conto indagare, e vedere allora delle cose che gli occhi vedono sempre quando non vedono: hanno microscopi e non vedono, hanno telefoni e non sentono.

Carlo Michelstaedter (dagli appunti e scritti vari 1909-1910)