L’uomo o l’artista?

di Alfredo Sgarlato – Tesi uno: Roman Polansky, come dice Enrico Ghezzi, se non è uno dei dieci registi più grandi nella storia del cinema, è l’undicesimo.

Tesi due: Roman Polansky è stato condannato per reati sessuali, e non ha mai veramente scontato la pena.

Durante la recente Mostra del Cinema di Venezia la Presidente della Giuria Leticia Martel ha fatto molto discutere affermando che non aveva nulla contro la partecipazione di un film di Polansky alla mostra, ma non avrebbe voluto assistere alla proiezioni in sua presenza per non doverlo applaudire. Alla fine, il regista non ha presenziato, e il suo film “J’accuse”, valutato tra i più belli in concorso, ha ricevuto il Gran Premio della Giuria. Evidentemente si è valutato il film a prescindere dalla persona. Da notare come l’argomento della pellicola sia il caso Dreyfuss, episodio storico che ha fatto esplodere la questione dell’antisemitismo, e questo mi ha ricordato come, una delle tante volte che il procedimento penale contro Polansky tornava a far parlare di sé, quella stampa abitualmente garantista, specie nei confronti di politici accusati di corruzione, diventasse giustizialista nei confronti di un intellettuale ebreo.

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Il caso Polansky fa tornare in auge la domanda da un milione di dollari: il giudizio sull’uomo può influenzare quello sull’artista, e viceversa? Io ovviamente non ho la risposta. Quando viene posta mi viene sempre da pensare che Caravaggio, probabilmente il più grande pittore mai esistito, era un assassino: dovremmo allora bruciare tutti i suoi quadri? Si racconta di come De Andrè non volle mai incontrare il suo idolo Brassens, per paura che l’uomo lo deludesse, e anche sull’uomo De Andrè girano brutte voci, come del resto furono persone pessime Picasso, David Bowie, Mick Jagger e persino John Lennon, prima che Yoko Ono lo trasformasse. E ci sono ovviamente i casi opposti, di artisti che furono ottime persone, senza contare le ottime persone che sono artisti mediocri. Fa specie però vedere come la carriera di Kevin Spacey o Woody Allen sia stata distrutta da accuse di molestie poi rivelatesi infondate.

Il caso Polansky peraltro avviene in un mondo, quello del cinema hollywoodiano, in cui la sessualità ha sempre giocato un ruolo enorme nei rapporti di potere. Bellezza, capacità seduttive e disponibilità sessuale hanno costruito carriere molto più del talento: il libro “Hollywood Babilonia”di Kenneth Anger racconta molti casi. Anche i rapporti omosessuali, come nell’antica Grecia, spesso derivavano da un’imposizione di potere più che da una reale pulsione omoerotica o omoaffettiva. Spesso erano una forma di iniziazione per entrare nel giro. Va detto che questo stile di vita riguardava uomini e donne, e alcune donne, come Marlene Dietrich o Greta Garbo, avevano raggiunto forti posizioni di potere rendendo succubi uomini e altre donne.

Oggi tutto ciò viene alla luce, e non bisogna farsi fuorviare dal fatto che molte denunce arrivino a distanza di anni: chi conosce la psicologia giuridica sa come le vittime di stupro, pedofilia, mobbing, razzismo, spesso sono coinvolte in un meccanismo perverso per cui temono di essere considerate complici o colpevoli a loro volta, e tendono a rimuovere il fatto; così come se a denunciare le molestie è un’attrice particolarmente antipatica e priva di talento non deve portare a minimizzarle (non mi è mai piaciuta la metafora della luna e del dito, ma stavolta la trovo calzante). D’altra parte, se maschilismo, razzismo e omofobia sono tutt’altro che sconfitti in questo medioevo di ritorno in cui viviamo, fa paura anche un’ondata di moralismo che può sconfinare in esiti assurdi: leggevo di una proposta di legge (mi pare in Francia) per rendere lo sguardo verso una donna già imputabile come molestia sessuale. Allora da uomo mi preoccupo molto e mi chiedo come si stabilisce il confine tra avance e molestia (e da uomo brutto mi chiedo se questo possa essere influenzato dalle caratteristiche dell’uomo). Ma io, ripeto, non ho le risposte: da cronista mi limito a raccontare il mio tempo.