Provincialismo magico. Cinema italiano degli anni ’80

di Alfredo Sgarlato – “Il più brutto del mondo”: così si intitolava un libro di Paolo Bertetto sul cinema italiano degli anni ’70/’80. Non che avesse tutti i torti: i grandi autori erano morti o in crisi creativa, la gloriosa commedia all’italiana degenerava nella commediaccia oscena (oggi ingiustamente rivalutata) e anche il cinema di genere, a parte l’horror, pure quello in fase calante, andava sparendo. Qualcosa da salvare però c’è: un manipolo di autori a volte sottovalutati, a volte baciati da un discreto successo, come Citti, Avati, Nichetti, Giuseppe Bertolucci. Il loro cinema, nel contenuto primario, ovvero la trasformazione della realtà spicciola in mito o favola, non è diverso da quello dei più grandi registi italiani loro predecessori, su tutti Fellini, Pasolini e Monicelli, ma è diverso il modo in cui lo persegue, astrazione intellettuale per quelli, immersione nella cultura popolare, nel racconto orale, per questi, laddove Fellini passava per Kafka e Jung e Pasolini per Freud e Gramsci (ma tutti quanti per Chaplin…). Un “provincialismo magico”, dove provincialismo è detto nel senso migliore del termine.

Uno dei migliori esempi per illustrare questo filone è Sergio Citti, ex assistente di Pasolini e fratello dell’attore Franco. Uomo privo di studi, Citti aveva un dominio istintivo della tecnica registica, per cui i suoi film, per quanto realizzati in economia, risultano formalmente molto belli. Si aggiunga la capacità di variare i registri, dal cinismo alla pietas, dallo straniamento surreale alla comicità farsesca, alla poesia pura. Il suo film più noto è “Casotto”, che ebbe un buon successo per via del cast incredibile (Mariangela Melato, Tognazzi, Proietti, l’allora diva bambina Jodie Foster e nientemeno che Catherine Deneuve!), film che rispetta le regole aristoteliche di unità di tempo e luogo nel caos farsesco della spiaggia di Ostia. Ma fu per la tv che raggiunse i suoi risultati più alti: “Il minestrone” epico e picaresco viaggio di due affamati (Ninetto Davoli e un Benigni ancora puro) in un Italia boccaccesca, con l’unica apparizione importante al cinema di Gaber nel ruolo di un improbabile profeta; e la serie “Sogni e bisogni”, in cui dirige i maggiori comici del momento (persino Pozzetto è usato magnificamente) in avventure surreali e commoventi. Ogni tanto la RAI si degna di mandarli in onda a ore improbabili: armatevi di videoregistratori o connessione internet e dategli la caccia.

Regista simbolo del filone non può che essere Pupi Avati. Dopo un inizio nell’horror, raggiungendo una delle massime vette nel genere con “La casa dalle finestre che ridono”, alterna sortite nei vari generi con film ambientati generalmente negli anni ’30/’40 in cui personaggi stralunati si confrontano con le storture dell’esistenza, uscendone comunque vincitori malgrado, o grazie alla loro ingenuità. “Le strelle nel fosso”, “Festa di laurea” e “Una gita scolastica”, a cui va aggiunto il poetico “Noi tre”, episodio apocrifo nella vita di Mozart, i risultati più felici di questo periodo. Poi come tutti gli autori molto prolifici Avati alterna passi falsi e opere deliziose, che però tornano spesso su temi già trattati (con l’eccezione del crudele “Regalo di Natale”, partita a poker che segna l’esplosione di Diego Abatantuono, fino ad allora relegato in ruoli stereotipati). Straordinario direttore di attori Avati mescola sapientemente comici in disarmo, caratteristi mal sfruttati ed esordienti, regalandogli più volte il ruolo della vita. Un cinema dai toni tenui ma sempre sincero.

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Fratello meno noto di Bernardo, Giuseppe Bertolucci è uno tra i registi italiani più inclassificabili, poetico, misterioso, innamorato delle donne. Mostra fin dagli inizi, con “Oggetti smarriti”(1981), storia d’amore e sesso tutta ambienta nella stazione di Milano, con una grande Mariangela Melato, una vena poetica molto personale e una tendenza al surreale molto rara nel cinema italiano. Elementi ribaditi nel bellissimo “Amori in corso”(1989), omaggio al cinema di Rohmer con attrici sconosciute (Francesca Prando, Amanda Sandrelli che poi sfonderà e Stella Vordemann) e dialoghi improvvisati, film di grande poesia e tenerezza. Ma non gli mancava un personalissimo senso dello humour, vedi per esempio “I cammelli”(1988), bizzarro road movie con una delle rare prove di Paolo Rossi al cinema. Tutti film distribuiti male, che recuperavo in pomeriggi domenicali o notti insonni.

Il più sottovalutato tra i registi italiani viventi penso sia Maurizio Nichetti, milanese, che dopo gli inizi come mimo e autore di cartoni animati diventa regista e autore totale dei propri film. In molti suoi film anticipa idee che faranno la fortuna di altri: la confusione tra realtà, cinema e tv in “Ladri di saponette”, la fusione tra attori reali e cartoon in “Volere volare”, il gioco del caso e del destino in “Stefano Quantestorie”: ma difficoltà produttive e distributive fanno sì che questi suoi film passino inosservati, o escano in ritardo rispetto a prodotti simili americani. L’insuccesso commerciale di “Luna e l’altra” (bellissimo ma troppo fuori dagli italici schemi) e “Honolulu baby” (non il suo film migliore ma comunque godibile) lo costringe a una posizione defilata. Eppure il suo cinema, tenero, buffo, poetico ma spesso esilarante, pur rientrando perfettamente nel filone che stiamo riscoprendo, coi suoi personaggi di ousider in un’Italia diventata provincia dell’impero, è un unicum ineguagliato.

In questo filone potremmo anche inserire alcuni casi particolari, come l’unico film dal vero di Bruno Bozzetto, “Sotto il ristorante cinese”, le opere prime dell’ex scenografo Amedeo Fago (“La donna del traghetto”) e di Carlo Mazzacurati (“Notte italiana”), “Stesso sangue”, road movie di Sandro Cecca ed Egidio Eronico che se fosse americano sarebbe un cult movie, e l’unica regia dello scrittore Stefano Benni (“Musica per vecchi animali” gradevole ma inferiore al romanzo “Comici spaventati guerrieri” da cui è tratto) e gli inizi di Daniele Luchetti,e ne possiamo cogliere gli echi in qualche opera posteriore come il divertente “Due amici” di Scimone e Sframeli o in “Pane e tulipani” di Silvio Soldini, l’unico baciato da un meritato successo. Un modo di fare cinema che oggi appare bizzarro, lontano sia dal commerciale che dalla pseudoautorialità schiacciata sul piatto realismo o sul cattivismo innocuo che ammorba tanto cinema europeo attuale; oggetti smarriti, potremmo dire citando il bel film sopra citato, ma senz’altro da ritrovare.