Un secolo di commedia cioè di Mario Monicelli

di Alfredo Sgarlato – Poche cose sono divertenti per il cinefilo come sentire Mario Monicelli raccontare i propri inizi nel mondo del cinema. Il giovane Mario girò un cortometraggio amatoriale e vinse un premio, che consisteva nel poter stare sul set di un paio di produzioni importanti. Arrivò e vide una donna bellissima stesa su un divano, mentre un signore elegante, il regista ungherese Machaty, le dava istruzioni.

Il regista parlò con foga per oltre quaranta minuti, poi diede il segnale di avvio delle riprese (“Ciak, motore, azione!”) e la bellissima diva disse: “addio”. Fine della scena. Monicelli capì che quella sarebbe stata la sua vita. Machaty era un vero dittatore, dirigeva in divisa e una volta fece persino a botte col direttore della fotografia per come si doveva girare una scena. Poi Mario capitò sul set di Genina. Questo spiegò a lungo al direttore della fotografia come intendeva girare la scena. Quello rispose: “Dottò, ‘un se po fa”. “E allora non la facciamo”.

Monicelli pensò che Genina fosse un cretino, altro che Machaty, il regista con gli stivali… Poi vide i film. Quello di Machaty faceva schifo. Quello di Genina (un regista che faceva film fascisti negli anni ’30, partigiani nel ’46 e democristiani dopo il ’48, però era un ottimo professionista) era valido. Quindi Mario decise per essere un bravo regista dovevi essere anche un bonaccione.

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images (2)Magari bonaccione sul set, coi collaboratori, perché come autore Monicelli era davvero cattivo. Toscanaccio nell’anima, per tutta la vita sostenne di essere di Viareggio, benché nato a Roma il 16 maggio 1915, ma cresciuto a Milano, che descrive come una città del terzo mondo (non ho mai sentito un grande artista parlare bene dell’Italia degli anni ’30, e chi sono io per contraddirli?), fu con Germi, Steno, Comencini, Risi, l’inventore della commedia all’italiana, ovvero la massima espressione del “castigat ridendo mores” (e qui il pensiero corre inevitabilmente a Totò che prende a schiaffi un beduino).

Dopo gli inizi in coppia con Steno al servizio di Totò, Aldo Fabrizi e altri comici, scrive e dirige una serie di commedie che entrano nella mitologia popolare sin dai titoli, che diventano modi di dire: “I soliti ignoti”, “L’armata Brancaleone”, “Amici miei”. A lungo la critica l’ha snobbato, eppure era autore vero. Il lavoro che compie sul linguaggio, pensiamo al medievale maccheronico di Brancaleone, i gerghi di “Romanzo popolare”, scritto con gli indimenticabili Jannacci e Beppe Viola, le “supercazzole” di Tognazzi, è qualcosa di unico. Ebbe l’intuizione di trasformare Gassman e Monica Vitti in comici.

In ogni film si imponeva una regola tecnica da seguire per sfidare sé stesso: mai movimenti di macchina, mai camera fissa… ovviamente senza farlo sapere ai produttori. Il suo cinema non è mai banale, superficiale, consolatorio, al contrario di tanta commedia di oggi che pure vive nel suo mito.

monicelliAmante dello scherzo, la sua morte fu l’ultimo sberleffo. Lucido e attivo fino a 95 anni, ma malato e destinato a perdere la vista, decise lui quando morire, per non lasciare la sua vita in mano al caso (o al destino, scegliete voi). Anche la sua morte fece discutere, come l’impegno politico che aveva riscoperto negli ultimi anni. Questo articolo non finirà con la banale affermazione “ci manca”. I suoi film sono immortali, la sua lezione di vita anche, sarà per sempre accanto a noi.