Casi letterari: Boris Pahor

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di Alfredo Sgarlato – Tra i molti libri che sto leggendo contemporaneamente ce n’è uno in cui procedo veramente a fatica. Non perché sia brutto, anzi, è scritto in una lingua eccellente, preziosa e raffinata. È il contenuto ad essere agghiacciante, a tratti insostenibile. Si tratta di “Necropolis”, di Boris Pahor. Un testo autobiografico, in cui lo scrittore, durante una visita ad un lager, quello in cui egli stesso era stato prigioniero, in mezzo a folle di giovani turisti ignari, rievoca il periodo di internamento.

Pahor, nato a Trieste il 28 agosto 1913 e tuttora vivente, è cittadino italiano, ma scrive in sloveno, la sua lingua madre, di cui è considerato il massimo esponente. Il suo primo ricordo è l’incendio della locale casa della cultura da parte di attivisti fascisti, il 13 luglio 1920, ma ancora più forte è quello di una bambina appesa in classe per le trecce, per essersi rivolta a un compagno in sloveno.

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Rifiutato l’arruolamento, Pahor viene rinchiuso nel lager di Dachau e poi di Bergen-Belsen, dove svolge l’attività di infermiere. Qui è ambientato “Necropolis”, considerato il suo capolavoro. Le pagine si susseguono senza mai raccontare una vera storia. Abbiamo il racconto di chi cerca di mantenere la propria umanità e intanto deve lottare per la propria sopravvivenza, mentre i compagni muoiono e rubano cibo e vestiti per salvarsi. Pahor si sente doppiamente disprezzato: dagli stranieri in quanto italiano e dagli italiani in quanto sloveno.

A questo punto sorgerebbe spontaneo il commento: “un libro da far leggere a chi predica il disprezzo per i diversi”… Non servirebbe. Chi crede, crede e basta. E penserebbe che sia tutto falso, c’è chi l’ha scritto persino del “Diario” di Anna Frank. Potesse un libro cambiare il mondo il nostro pianeta sarebbe infinitamente migliore. Ma poi, leggendo “Necropolis”, sorge un altro dubbio. Se l’argomento è atroce, lo stile letterario è magnifico: è giusto raccontare il Male con un linguaggio “bello”? È quello che si pensa per esempio vedendo certi film di Scorsese o, a un livello molto più basso, di Meirelles, fermo restando che un film ha ben altro impatto che un libro.

capoNecropolis” esce nel 1967 in sloveno, nel 1990 esce in Francia, è premiato in tutto il mondo, in Italia esce per un edizione locale nel 2005 e solo nel 2008 ha una distribuzione nazionale. Perché? La persecuzione degli italiani di lingua slovena e croata è il grande rimosso della Storia italiana.

Di fatto il velo è caduto solo nel 2004, con la pubblicazione del libro “I campi del Duce”, di Carlo Spartaco Capogreco, in cui è ricostruita l’esistenza, anche in terra italiana, di campi di concentramento in cui furono rinchiuse circa 25000 persone, di cui almeno 1400 morirono in quello di Arbe, che ebbe una percentuale di morti superiori a Buchenwald. In breve, dalla Storia e dai libri ci sarebbe sempre tantissimo da imparare, e invece a leggere e a imparare siamo sempre i soliti quattro gatti.