Medaglia d’argento al finalese Antonio Arnaldi, ex deporato nei campi di concentramento

Sabato 17 gennaio alle ore 16, presso la Sala Gallesio di via Pertica a Finale Ligure, la presidente dell’Aned (Associazione Nazionale ex Deportati nei campi di concentramento) di Savona, Maria Bolla, consegnerà al finalese Antonio Arnaldi (Tunittu) una medaglia d’argento per i suoi novant’anni e per il suo passato da deportato. Il Sindaco Ugo Frascherelli consegnerà ad Arnaldi un’acquaforte.
Dice Arnaldi: “Mi sento impegnato a testimoniare, per tanti amici e compagni che non hanno potuto sopravvivere a quei 14 mesi, anche se ciò mi procura immenso dolore”.
L’iniziativa è organizzata in collaborazione con il Comune di Finale Ligure.

La testimonianza di Arnaldi sulla sua deportazione. «Operaio della Piaggio, nel 1944 aderii allo sciopero organizzato dal Comitato di Fabbrica, costituito il 25 luglio 1943, che dopo l’8 settembre era diventato clandestino. Fui arrestato il giorno 3 marzo, presso la mia abitazione, dai militi della Repubblica di Salò; insieme ad altri 25 finalesi fummo trasferiti a Spotorno, dove erano detenute circa 250 persone rastrellate nei giorni precedenti. Il giorno dopo, in treno, fatto arrivare su binario interno, ci portarono direttamente a Genova; qui trovammo altri prigionieri. Dopo una selezione e interrogatorio finii in un gruppo trasferito alla prigione di Bergamo, sempre su carri bestiame. In seguito, venni a sapere che si attendeva di imprigionare altri uomini e donne. Infatti, il 12 marzo, dalla prigione fummo trasferiti su di un binario morto, isolato, nei pressi della stazione, e qui, stipati su carri bestiame, iniziò il nostro viaggio: destinazione Mauthausen. Eravamo su quel trasporto circa 600/700 persone, vi erano 15 donne e alcuni preti. Quanto è durato il viaggio non so quantificarlo; era sempre buio perché avevano oscurato anche il piccolo finestrino del vagone, nessuno aveva l’orologio, a Genova ci avevano spogliato di ogni avere. Avevo solo 17 anni».
«Arrivati a Mauthausen piovigginava, incolonnati e scortati dalle SS e dai cani lupo, noi affamati, storditi e disperati, percorremmo a piedi i 4 chilometri per arrivare alla fortezza del campo. All’ingresso leggemmo sul portone la scritta “ARBEIT MACHT FREI” (il lavoro rende liberi). Appena varcato l’ingresso vidi una fila di baracche in legno su di un grande piazzale e uomini che parevano scheletri. Dal nostro gruppo furono staccate immediatamente le donne e i preti e fatti quindi scendere in una specie di scantinato. Dalle loro grida comprendemmo che stava succedendo qualcosa di terribile. Mentre venivamo spinti anche noi in quello scantinato, vedemmo le donne sfilare distrutte e piangenti, completamente nude, già rapate dei capelli, spinte brutalmente con il gum (manganello di gomma rinforzato con fili di rame). In gruppi di 50, ci ordinarono di spogliarci del nostro vestiario; un prigioniero deportato utilizzato per questo lavoro, provvide a raderci e a togliere ogni peluria dal corpo, mentre un altro, con una spugna intinta in una specie di creolina, provvedeva a disinfettare le parti più calde del corpo. La miscela disinfettante era talmente forte che il giorno dopo la nostra pelle squamava ustionata. Infine, dopo averci fatto passare sotto una doccia fredda, le SS indicarono una montagna di vestiario, dovemmo scegliere una camicia e una mutanda, il tutto velocemente, colpiti dai frustini delle guardie e da urla incomprensibili. Sempre in colonna, attraversammo il piazzale e ci riunirono in una baracca, per quella che le SS chiamavano quarantena. Non vi erano letti, coperte e neppure paglia, dovemmo dormire per terra, sdraiati come acciughe in un vaso».
«Sorvolo sulla brutalità con cui fummo costretti a sdraiarci; un uomo, che poi si capì era il Kapo, fece largo uso di bastone aiutato da due sottocapi. Questi Kapo erano criminali comuni ,ai quali il governo nazista prometteva libertà e benemerenze in cambio della loro brutalità. Al mattino, incolonnati in fila per dieci, formammo squadre di 100 prigionieri; un graduato delle SS diede gli ordini; alcuni prigionieri facevano da interprete nelle varie lingue; gli ordini erano: “non si può parlare, bisogna stare in fila”, ci venne assegnato un numero di matricola. A quel punto non venivamo più chiamati col nostro nome, ma col numero, che peraltro era indicato in tedesco. Chi non rispondeva veniva punito con 25 vergate, oppure infilato in un buco sotto terra per giorni, senza mangiare e senza bere, sino all’impiccagione. Fummo vestiti con giacca e pantaloni a righe di tela; dotati per mangiare di una specie di catino di ferro smaltato, senza posate. Il vitto era: al mattino un mestolo di acqua calda e orzo, alla sera una brodaglia di rape con qualche patata e carota, un cucchiaio di marmellata o margarina, eccezionalmente una fettina di salame affumicato. Fui fortunato perché, anziché essere destinato alla cava, con altri italiani passammo in una zona a 8 chilometri dalla fortezza (Gusen) per costruire le baracche di un altro campo: Gusen II. Finite le baracche mi destinarono a una fabbrica di armi interna al campo. I pidocchi erano padroni della nostra pelle, le malattie imperversavano, i lunghi appelli sotto la pioggia e neve, sempre vestiti di tela, la mancanza di cibo, mietevano vittime a decine, il forno crematorio fumava giorno e notte. Eppure si cercava di vivere, volevo vedere ancora mia mamma. Pensavo che chi aveva organizzato la mia vita, come pezzo da lavoro, non poteva vincere.          Mi sento impegnato a testimoniare, per tanti amici e compagni che non hanno potuto sopravvivere a quei 14 mesi, anche se ciò mi procura immenso dolore».