Neuroestetica: un ponte tra scienza ed arte

di Alfredo Sgarlato – Un luogo comune duro a morire recita che usiamo solo il 10/20% del nostro cervello: impossibile, altrimenti andrebbe in cancrena. Alla base di questo falso mito, pur alimentato in film come “Lucy” (Luc Besson), c’è il fatto reale che fino a una trentina di anni fa si conosceva l’effettiva funzione solo di alcune aree cerebrali, quelle come le aree dette di Wernicke e di Broca responsabili del linguaggio, la cui funzione è spesso compromessa da incidenti frequenti. L’enorme progresso nel campo delle tecniche di indagine come PET e tecniche di neuroimaging ha fatto sì che oggi la totalità del cervello sia stata mappata, peccato che questa notizia sia conosciuta solo dagli addetti ai lavori.

Semir Zeki

La maggior parte dei neuroscienziati, e i nomi più brillanti, è italiana, su tutti l’equipe di Giacomo Rizzolatti che è responsabile di una delle maggiori scoperte scientifiche degli ultimi anni, ovvero i neuroni specchio, quelli coinvolti nella comprensione e nell’apprendimento dei comportamenti altrui. Una comprensione che è in primo luogo corporea, per cui si parla di “cognizione incarnata”. Tra i pochi esponenti di spicco non italiani nel campo delle neuroscienze vi sono proprio gli iniziatori della corrente che andremo a indagare, la neuroestetica, ovvero l’inglese di origine turca Semir Zeki e l’americano di origine indiana Vilayanur Ramachandran.

Vilayanur S. Ramachandran

Zeki parte dagli esperimenti di Timbergen (1951) sulla capacità dei piccoli di gabbiano di riconoscere simboli, e indaga sui fenomeni detti “sinestesie”, ovvero la fusione tra stimoli sensoriali diversi, come l’ “effetto Booba-Kiki”, in cui si dà un nome a una forma in base a caratteristiche suggerite dal nome, oppure si abbina un colore a un suono, come Rimbaud nella poesia “Voyelles”, o i jazzisti che definiscono tube e tromboni “strumenti bruni”. Zeki e Ramachandran teorizzano una disciplina, la neuroestetica, che ovviamente non si sovrappone alla critica d’arte, ma indaga sulle aree cerebrali coinvolte sia nella creazione artistica che nella fruizione del bello, e si chiede se esistano principi invarianti comuni a tutte le culture.

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Qual è un Booba e quale un Kiki?

È interessante scoprire come le aree cerebrali attivate dalla contemplazione del bello, quelle occipito-frontali, siano le stesse che si attivano quando si risolve un’equazione matematica. E, contrariamente a un altro luogo comune, l’esperienza del bello si prova anche di fronte ad opere astratte, forse perché basate su un simbolismo comune ad ogni umano, forse perché, come sostiene Vittorio Gallese, anche di fronte ad opere astratte riusciamo, tramite la “cognizione incarnata”, a immedesimarci nell’autore. Ma sono ipotesi ancora allo studio. Si è anche indagato se aree cerebrali diverse sono coinvolte nella percezione del bello e in quella del “sublime”, per dirla con Kant, e la risposta è sì, nella seconda sono coinvolte anche aree cerebrali più profonde, quelle nelle emozioni più complesse, come l’ippocampo e il cervelletto, ma non aree legate a emozioni primarie come l’amigdala.

Vilayanur Ramachandran, si è chiesto se esistano caratteristiche costanti per tutta l’umanità nella fruizione dell’arte, ed ha formulato ben dieci leggi universali della percezione e dell’esperienza estetica: 1. Iperbole 2. Raggruppamento percettivo 3. Risoluzione dei problemi percettivi 4. Isolamento modulare 5. Contrasto 6. Simmetria 7. Avversione per le coincidenze sospette e per le singolarità 8. Ripetizione, ritmo e ordine 9. Equilibrio 10. Metafora. Anche questa ipotesi è stata molto discussa, perché non terrebbe conto dei condizionamenti culturali: per esempio nelle culture orientali la simmetria è vista con orrore. In seguito Ramachandran ha parzialmente preso le distanze dal proprio studio, assumendolo come ipotesi su cui lavorare.

Vitaly Komar e Alexander Melamid, “America’s most wanted”, dipinto realizzato basandosi sulle preferenze estetiche degli americani. Ricerche compiute in Europa, Kenia e Cina hanno dato risultati simili

Altro punto di discussione è la motivazione per cui, dando per scontato che un comportamento si fissa se ha uno scopo evolutivo (e io non lo darei tanto per scontato), creatività e passione per l’arte abbiano tanto successo tra gli umani. Miller ipotizza il cosiddetto “effetto coda di pavone”: il creativo/amante del bello è visto come individuo a sua volta attraente, “Alpha”. Elen Dissanayake ipotizza che il comportamento artistico sia un comportamento di cura, come quello madre-bambino (quindi slegato dalla fruizione della bellezza). Reber ipotizza che la contemplazione del bello dia un piacere simile a quello della risoluzione di un enigma. Tutte ipotesi molto affascinanti, ma comunque da verificare.

*(articolo basato sulla mia conferenza tenuta per l’associazione “La Pietra Filosofale” di Pietra Ligure)