Contro il realismo al cinema

di Alfredo Sgarlato – Per festeggiare il mio compleanno ho deciso di rivedere un classico del cinema. Su Raiplay (piattaforma in cui la navigazione è piuttosto difficile) ho trovato “Le due inglesi”, di Francois Truffaut, e l’ho guardato. Rivedendolo a oltre trent’anni dalla prima volta, e a cinquanta dall’uscita, mi ha colpito quanto mi apparisse differente, sul piano formale, dal cinema contemporaneo. Era evidente come il film fosse pensato per il grande scherrmo, elemento che oggi è messo in discussione, e si notava come Truffaut, seguendo i suoi maestri Hitchcock e Welles, mostrasse fortemente la presenza della regia (camera-stylo, come la chiamava il teorico Andrè Bazin). Benchè Truffaut si dichiarasse anche fan di Rossellini non c’era la benchè minima pretesa di realismo, se non nei meravigliosi colori della fotografia di Nestor Almendros: era chiaro, nelle intenzioni dell’autore e in me spettatore, di stare guardando un film, e un film pensato come evoluzione tecnica della letteratura.

Le due inglesi

Forse non è il film migliore di Truffaut, ma guardandolo non mi sono mai annoiato, il film aveva, pur nella sua esibita letterarietà, un ritmo notevole, mentre per es. guardando “Tenet”, film ambizioso dove però l’azione troppo spesso cerca inutilmente di sopperire alle mancanze della sceneggiatura, non ne potevo più dopo meno di mezz’ora. Questa doppia visione ravvicinata mi ha portato a riflettere sui limiti del cinema contemporaneo, in un periodo storico in cui gli incassi crollano e le sale chiudono, e non solo per colpa della pandemia.

Sempre Truffaut divideva i registi cinematografici in due categorie: quelli che intendono il cinema come linguaggio, e quelli che lo intendono come spettacolo. Poi, aggiungo io, c’erano quelli che lo intendevano come entrambe le cose, i Kubrick, i Fellini, gli Hitchcock, che alla settima arte hanno regalato i suoi massimi capolavori. Oggi i film tendono ad estremizzarsi in due tipi di prodotti: un cinema di genere, ispirato da fumetti o videogiochi, altamente spettacolare ma generalmente pensato per un pubblico di adolescenti, e una pseudoautorialità che spesso lascia meno del tempo che trova.

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The French Dispatch

Sul primo filone non ci soffermiamo, lo si è fatto abbastanza altrove, lasciamo ad ognuno il giudizio sul singolo film che può essere più o meno divertente a seconda dei gusti. Quanto al cinema d’autore, mi pare che al cinema come linguaggio ci creda ormai solo Wes Anderson, forse in maniera persino eccessiva, vedi l’ultimo “The French Dispatch”. Al contrario, parrebbe sempre più forte una corrente di registi che ha in un’ adorazione acritica e inconcludente del realismo assoluto la propria cifra stilistica. Ne derivano vezzi insopportabili come l’abuso della camera a mano, per cui i personaggi sono quasi sempre di schiena (vedi alcuni film dei Dardenne o “Victoria”); i dialoghi in cui i personaggi bisbigliano, bofonchiano, si parlano nell’orecchio: gran parte del cinema italiano attuale, dal pur pregevole “Antonia” al sopravvalutatissimo “Favolacce”. Quando poi l’estremo realismo si fonde con una volontà di “provocazione” abbiamo risultati come l’orribile “Japon” di Carlos Reygadas, con deiezioni, masturbazioni e coiti di animale in tempo reale, peraltro superflui per lo sviluppo narrativo.

Victoria

Cui prodest? Verrebbe da dire: caro giovane regista, ho capito che vuoi mostrare la realtà, ma ammesso e non concesso che la realtà che mi mostri sia interessante, io non voglio vedere la realtà, voglio vedere un film. E mi stupisco che il “provocatore” non si renda conto che le sue provocazioni arrivano solo a un ristretto pubblico composto da studenti ingenui che credono che questi provocazioni funzionino, o ad anziani intellettuali altoborghesi a cui sarebbero apparse già vecchie nel 1962. A questi autori che vogliono mostrare quanto è brutto il mondo e quanto può essere ancora più brutta la sua rappresentazione consiglierei di guardare un qualsiasi programma di informazione su una rete tv generalista, e vedranno quanto sono dilettanti.