Kurt Vonnegut, l’umanista beffardo

di Alfredo Sgarlato – Premessa autobiografica: molti anni fa un amico dell’università, conoscendo i miei gusti, mi consigliò di leggere Kurt Vonnegut, e in particolare “Mattatoio n° 5“. Lo avevo visto nell’edicola/libreria vicino a casa e corsi a comprarlo. Era stato venduto da poco, ma c’era un altro libro di Vonnegut, “Madre notte“, che presi subito. Caso volle che a comprare Mattatoio n°5 fosse stato mio zio (che poi andò anche a prendere Madre notte, non trovandolo), e quindi potei leggere anche quello poco dopo.


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Madre notte (“Mother night“, 1962) è la storia di Howard Campbel, spia che durante la seconda guerra mondiale fa il triplo gioco, accettandone le conseguenze più estreme. Romanzo avvincente e commovente, è l’unico di cui l’autore dice di conoscere la morale. Mattatoio n°5 (“Slaughterhouse-Five or The Children’s Crusade”, 1969) è la storia di un americano medio e mediocre, Billy Pilgrim, che il caso porterebbe ad avere molte disgrazie, ma da cui impara a fuggire viaggiando nel tempo e nello spazio. Durante uno di questi viaggi viene rapito dagli alieni, che vogliono capire come mai nella razza umana la riproduzione implichi solo la presenza di due sessi, contro gli undici del loro pianeta. A mio modesto parere Mattatoio n°5 è uno dei vertici della letteratura contemporanea, un romanzo scoppiettante di invenzioni, pieno di umanità, a tratti esilarante eppure estremamente profondo nelle sue molte chiavi di lettura.

Queste caratteristiche sono quelle che fecero sì che Kurt Vonnegut Jr, nato a Indianapolis l’11/11/1922 da una famiglia di origini tedesche, sia stato uno scrittore di culto ma non di successo. Fece studi irregolari in biochimica e antropologia (in cui poi ricevette la laurea honoris causa), partecipò alla seconda guerra mondiale, venendo fatto prigioniero e scampando per caso al bombardamento di Dresda (episodio centrale del suo capolavoro). Dopo aver fatto il giornalista e il pubblicitario, negli anni ’50 si dedicò alla scrittura di racconti di generi vari per le riviste, che poi rinnegherà con veemenza. Nel 1952 pubblicò il primo romanzo “Player piano” (uscito in Italia come “Piano meccanico” ma anche come “Distruggete le macchine” e “La società della camicia stregata“), un’antiutopia alla Orwell. Nel 1959 scrive “Le sirene di Titano“, romanzo dalla trama nettamente fantascientifica, ma dal tono comico e surreale, sebbene profondamente morale (ma non moralista), caratteristiche che lo avvicinano più a Swift o al Voltaire di “Candido” e “Micromega” che alla science fiction propriamente detta, così come in “Ghiaccio 9” (“Cat’s cradle” 1963), la componente fantascientifica è secondaria rispetto a quella psicologica e filosofica. A questo punto Vonnegut non è più amato dal mondo della letteratura di genere, ma nemmeno accettato da quella mainstream.

Eppure a questo punto il livello dei suoi romanzi è sempre buono, quando non straordinario, come in “Comica finale” (“Slapstick“,1976), in cui un presidente degli USA medita un bizzarro sistema per guarire gli americani dal loro irriducibile individualismo, il romanzo in cui la satira politica si fa ferocissima (il presidente è mentalmente ritardato…), o l’ultimo capolavoro, “Il grande tiratore” (“Deadeye Dick“, 1982), una parafrasi de “Lo straniero“, in cui un imbecille, giocando con un fucile uccide una donna incinta, ma poiché l’avvocato del marito della donna in gioventù aveva difeso un comunista viene assolto a furor di popolo (Vonnegut, da buon americano, non è comunista, ma considera l’anticomunismo in America un’idiozia) e condannato solamente a portare a vita un buffo soprannome. Da leggere assolutamente anche il suo romanzo più esilarante, “La colazione dei campioni” (“Breakfast of champions“, 1973), l’unico suo libro da cui è stato tratto un buon film (per esempio il film tratto da Mattatoio n°5 non sarebbe brutto ma, come spesso avviene, è deludente per chi ha letto il libro e poco comprensibile per chi non l’ha letto).

Caratteristica dei romanzi di Vonnegut è la presenza ricorrente di alcuni personaggi, tra cui il già citato Campbel, ma soprattutto Kilgore Trout, alter ego negativo dell’autore, scrittore di fantascienza fallito che riesce a pubblicare solo su riviste porno. Curiosamente nel 1974 l’ottimo scrittore di fantascienza Philip Josè Farmer, il primo nel campo a scrivere storie sessualmente esplicite e fortemente politiche (ingenuissime rilette oggi), pubblicò un esilarante romanzo pulp “Venere sulla conchiglia“, firmandolo Kilgore Trout. Vonnegut ne fu dapprima lusingato ma poi prese le distanze. In “Galapagos” (1984), l’ipotetico figlio di Kilgore, Leon Trotzky Trout, è la voce narrante. Purtroppo questo romanzo, come in genere l’ultima produzione dell’autore, è piuttosto stanco: farei un’eccezione per “Barbablu“(1987), in cui Vonnegut si esprime sull’arte contemporanea, ovviamente con un parere assolutamente fuori dalla norma.

Vonnegut è, insieme a Gombrowicz e Camus, lo scrittore che ha più contribuito a formare la mia visione del mondo, più di qualsiasi filosofo (molti mi toglieranno il saluto dopo questa affermazione ma è così). Riesce a divertire affrontando i temi più forti dell’esistenza: il senso della vita, l’accettazione della morte, il ruolo del caso, il rapporto tra l’individuo e la Storia, le contraddizioni della società contemporanea, e sempre con una profonda compassione verso i personaggi. Sono proprio le sue qualità a farne uno scrittore per pochi, specie qui in Italia dove la visione della letteratura è sempre stata molto rigida, per non dire ottusa. Ateo, per certi versi avvicinabile all’esistenzialismo e al buddismo, anarcoide, non marxista ma certamente non repubblicano, come tutti gli inclassificabili politicamente e artisticamente viene rifiutato da tutte le chiese e da tutti i credenti per essere adorato dagli eccentrici outsiders come lui. Per dirla con la moda attuale, contro le élites ma estraneo come idee al presunto “popolo”. E poi, peccato mortale per molta critica, spesso fa veramente ridere.

Postilla: il primo figlio di Vonnegut, Mark, pediatra, ebbe in goventù un episodio psicotico. Dopo la guarigione ha scritto un libro, “Eden express” (1975), in cui racconta con grande lucidità lo sprofondamento nella follia. È un libro molto bello: buon sangue non mente.