Adolfo Levi: Scetticismo e solipsismo

"Per parlare di un reale, per dire che qualche cosa esiste, occorre che in qualche modo pensi, cioè mi valga di un processo conoscitivo. Il pensiero, che si può chiamare il mezzo o lo strumento che debbo usare per determinare la natura della realtà, mi permette di raggiungere lo scopo che mi propongo?"

Meidner

di Fabrizio Pinna – Rara avis in Italia, nel primo Novecento lo scetticismo trovò voce principalmente in due filosofi quasi coetanei ma molto dissimili per temperamento, vis polemica e stile argomentativo: Giuseppe Rensi (1871-1941) e Adolfo Levi (1878-1948). Dei due, l’“irregolare” Rensi è oggi sicuramente il più conosciuto, (ri-)edito e studiato, mentre Levi rimane invece un po’ in ombra, ai margini anche della storiografia accademica. Una sommaria introduzione al suo scritto può dunque risultare utile al lettore.

Adolfo Levi (1878-1948) è stato un filosofo di tradizione scettica, docente universitario e storico della filosofia, principalmente antica (greca e romana) e moderna (in particolare Cartesio, Berkeley, Bacone, Hobbes), ma anche molto attento al dibattito filosofico e scientifico a lui contemporaneo. Tra le sue opere di maggiore impegno teoretico si possono ricordare La fantasia estetica (Firenze, Seeber, 1913) e, soprattutto, Sceptica (Torino, Paravia, 1921).

Levi tenne corsi all’Università di Torino e nella sua prima maturità insegnò stabilmente storia della filosofia all’Università di Pavia, dal 1922 sino alle epurazioni fasciste vergate dalle leggi razziali e antisemite nel 1938. Così condannato ad anni duri di vita semiclandestina, caduto il regime l’età avanzata e lo stato di salute non gli consentirono di riprendere l’insegnamento. Dopo la sua morte uscirono comunque nelle riviste di settore alcuni suoi studi inediti e una ristampa della sua Storia della filosofia romana (Firenze, Sansoni, 1949) successivamente tradotta anche in spagnolo (Historia de la filosofía romana, Buenos Aires, Eudeba / Editorial Universitaria de Buenos Aires, 1969); nel 1959 torna nelle librerie Sceptica in una edizione curata da Adolfo Ravà (Firenze, La Nuova Italia, 1959) mentre nel 1970 Giovanni Reale curerà l’edizione postuma de Il problema dell’errore nella metafisica e nella gnoseologia di Platone (Padova, Liviana Editrice, 1970).

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Nel giugno 1973 l’Università di Pavia inaugurò una lapide in sua memoria, con questa epigrafe: «Nella storia della filosofia — maestro —vivo ancora nelle sue opere — ammirate in Italia e fuori — e vivo nel ricordo dei discepoli — a tutti esempio di rettitudine — e di nobiltà morale — ADOLFO LEVI — in questa Università insegnò — dal 1922 al 1938 — finché inique leggi —offendendo insieme la libertà e la cultura — lo privarono della sua cattedra —Moriva nel 1948 — compiuto appena l’ultimo suo libro — su Platone — Modena 20.8.1878 / Roma 9-8-1948» (cfr. “Adolfo Levi commemorato a Pavia”, in «Rivista Critica di Storia della Filosofia», vol. 29, n. 2, 1974, pp. 228–239).

Venticinque anni dopo “Alla non ricca serie di studi dedicati alla figura e al pensiero di Adolfo Levi” si aggiunse – riprendendo le parole della Prefazione di Vittorio Enzo Alfieri (1906-1997) – un “doveroso tributo alla memoria del maestro”, ovvero la monografia – nata come studio per una tesi di laurea – di Laura Pasquino, Adolfo Levi (1878-1948). Critica scettica e Storia della filosofia, Bologna, Cisalpino-Istituto editoriale universitario, 1998, volume di una collana appunto dedicata a “Fonti e Studi per la storia dell’Università di Pavia”. A Roma nella Biblioteca di filosofia della Sapienza oggi si conserva invece un “Fondo Adolfo Levi” con i suoi scritti e parte della sua biblioteca privata (libri, opuscoli e riviste filosofiche).

“Il problema dell’errore”, approfondito in numerosi studi di storia della filosofia continuati per tutta la vita, le aporie del realismo e l’impossibilità di raggiungere una indubitabile “certezza” (oggettiva o soggettiva che fosse) sono il fondamento primo del suo filosofare, argomentato nelle sue estreme conseguenze in Sceptica (1921) in cui Levi sostiene essere il “solipsismo la concezione metafisica meno insoddisfacente delle altre” (p. 194), sebbene anch’essa sia incapace di dissolvere definitivamente dubbio e incertezza. Adolfo Levi sosteneva una cesura netta fra pensiero teoretico e coscienza etica, valutativa (“la teoreticità e l’eticità costituiscono due funzioni spirituali autonome, indipendenti, sicché è vano volere subordinare l’una all’altra” scriveva nel 1931); da qui le sue conclusioni esistenzialmente sofferte e tormentate:

«siccome il mio scetticismo si rivolge su se stesso, siccome nemmeno il dubbio posso accogliere come definitivo, sono spinto continuamente a nuove indagini, per vedere se, una buona volta, giungo a conquistare la certezza; ma non la conseguo. Se, provvisoriamente, trovo nel solipsismo la concezione metafisica meno insoddisfacente delle altre, debbo riconoscere che essa mi isola dalla vita vissuta e non dà appagamento alle domande più urgenti della mia coscienza, le quali mi impongono di riconoscere altri esseri simili a me, altre persone umane, fornite di propria dignità e di proprio valore; talché fra le esigenze del mio pensiero e quelle della mia coscienza etica regna un dissidio insanabile, e io debbo agire in modo non conforme alla concezione che mi sono formato del reale. È ben vero che si tratta di due funzioni distinte, che perseguono fini diversi; ma una sofferenza profonda mi assale quando mi vedo diviso come in due e non trovo modo di conciliare in una sintesi unitaria il pensiero e la condotta. E quando poi, criticando la stessa metafisica solipsistica provvisoriamente accolta, vedo che essa pure sottostà ai colpi dello scetticismo, e che questo mi riprende completamente, sento crescere la sofferenza e l’angoscia, perché più che mai mi trovo davanti a quel disperato problema del male e del dolore di cui non posso negare né l’esistenza né l’urgenza, ma di cui non intravedo, nemmeno da lontano, la possibilità della soluzione.» (Adolfo Levi, Sceptica, Torino, Paravia, 1921, pp. 194-195).

Ripropose e riassunse sinteticamente la sua posizione filosofica dieci anni dopo ne «L’archivio di filosofia» (fasc. 3, n. 3, novembre 1931; e in estratto come opuscolo: Lanciano, Carabba, 1931) nello scritto “Scetticismo e solipsismo”, che qui ripubblichiamo integralmente (con le parole dello stesso Adolfo Levi: “Ripresento in questo articolo, con lievi determinazioni e schiarimenti, le idee direttive del mio volume Sceptica –Torino, 1921– esaurito da alcuni anni”). Ma prima di lasciare il lettore a questo suo testo di meditazione filosofica, un’ultima annotazione tutt’altro che scontata in Italia nell’epoca in cui viveva (e, ahinoi, per qualcuno ancora oggi). Ritenendo che la scienza avesse “l’ufficio d’interpretare razionalmente i diversi aspetti dell’esperienza”, Levi era certamente molto lontano dall’impronta idealistica d’antan portata avanti – con relativa originalità – da Croce e Gentile e dalla loro “completa svalutazione che compiono del sapere scientifico”, come rilevò in un suo intervento su “I rapporti tra la filosofia e la scienza nel pensiero contemporaneo” tenuto al IX Congrès international de philosophie (congrès Descartes, Parigi 1-6 agosto 1937).

Preso atto che “molte critiche che si potevano rivolgere al realismo della scienza della metà dell’800 attualmente appaiono prive di significato”, pur sostenendo che “la filosofia non si può ridurre a una gnoseologia della scienza” le sue conclusioni erano che “la ricerca scientifica, conduca o no a un’interpretazione oggettiva della realtà, ha per la filosofia importanza grandissima, se non altro, perché getta luce sul funzionamento delle forme superiori del pensiero ben più della conoscenza comune. La filosofia non deve fondarsi sui risultati puri e semplici della scienza, né deve pretendere di predeterminarne i procedimenti; ma la seconda deve apprendere dalla prima quale sia il proprio ufficio e se possa accordare valore oggettivo alle proprie costruzioni e la prima deve imparare dalla seconda a rendersi conto della vera natura di proposizioni che aveva ammesso, cioè a criticare sé stessa.” (Adolfo Levi, I rapporti tra la filosofia e la scienza nel pensiero contemporaneo, in estratto: Parigi, Hermann, 1937; cit. a p. 154 e p. 158).

Adolfo Levi: Scetticismo e solipsismo

Se mi propongo di conoscere la natura della realtà, debbo cominciare col chiedermi quale valore abbia l’atto di conoscenza per cui cerco di coglierla. Per parlare di un reale, per dire che qualche cosa esiste, occorre che in qualche modo pensi, cioè mi valga di un processo conoscitivo. Il pensiero, che si può chiamare il mezzo o lo strumento che debbo usare per determinare la natura della realtà, mi permette di raggiungere lo scopo che mi propongo? Ma il pensiero, a quanto sembra, può funzionare anche senza riferirsi a un reale che ne formi l’oggetto, o, a dir meglio, può costruire liberamente il proprio oggetto: nel suo libero funzionamento, e in generale nella stessa applicazione della propria attività, procede legittimamente? È chiaro che se a questa domanda non viene risposta affermativa, si deve rispondere nello stesso modo anche a quella che riguarda la capacità della mente di cogliere la natura della realtà. Infatti, se il pensiero, quale attività che si esplica indipendentemente da un oggetto reale, appare viziato o almeno sospeso, non si può ritenere che sia valido quando mira a cogliere la realtà. Si può dire però che non è lecito porre in discussione il valore del pensiero, cioè parlare di una vera e propria critica della conoscenza; infatti l’attività pensante dovrebbe giudicare di sé stessa e perciò tale ricerca presupporrebbe piena fede nella correttezza e nella validità di quell’atto di conoscenza che apparentemente sarebbe sottoposto a un esame; e ciò si applica ad ambedue le questioni indicate sopra. Effettivamente però questa osservazione serve soltanto a mettere in luce che chiunque non vuole chiudersi nel dubbio rispetto al valore della conoscenza, deve compiere un atto di fede nella legittimità e nella validità del pensiero.

Infatti senza questa volontà di credere, che non appare giustifica in alcun modo e perciò assume l’aspetto di un presupposto extra-razionale, è impossibile sottrarsi al dubbio più radicale. Perciò qualunque sia il risultato della ricerca sul valore del pensiero in generale (ricerca che però è indispensabile, perché se non si saggia lo strumento della conoscenza non si può aver fiducia nelle conclusioni cui esso porta), non si può rispondere in modo perentorio alle obbiezioni dello scetticismo. Se si giunge a risultati positivi, si può sospettare della validità di una ricerca compiuta con procedimenti non giustificati; nel caso opposto, si deve attribuire la responsabilità della condanna della conoscenza alla conoscenza stessa, perché l’oggetto stabilito qui coincide col pensiero che lo esamina.

Una causa gravissima di sfiducia nel valore dell’attività conoscitiva risiede nell’atto dell’errore. È indiscutibile che talvolta ho avuto la convinzione di essere nel vero e poi sono stato costretto a riconoscere che mi ero ingannato: ora, basterebbe il riconoscimento di un solo caso di tal genere per gettare il sospetto sulla validità di ogni procedimento conoscitivo, perché chi mi garantisce che non possa cadere nell’errore in qualsiasi momento, anche quando ho la certezza più assoluta di essere fuori di esso? Il criterio giuridico che vieta di prestar fede al testimonio che è stato colto in inganno anche una volta sola si può, anzi si deve applicare al procedimento conoscitivo, che appare quindi irrimediabilmente sospetto. Si affermerà che in alcuni casi l’errore è impossibile? Ma il suo carattere essenziale consiste nel fatto che la certezza che esso presenta non differisce da quella che si unisce a ciò che si chiama l’apprensione del vero, e perciò nulla mi assicura che non possa essere nell’inganno anche quando ho la convinzione assoluta di pensare la verità. Per eliminare questo sospetto occorre negare l’esistenza dell’errore nell’atto attuale del pensiero e sostenere che può presentarsi soltanto nel pensiero passato, oggettivato, che appare un momento superato dalla vita eterna dello spirito che pensa sempre il vero. Ma in tal modo si sopprime il problema, non lo si risolve; infatti non si può parlare di vero e di falso per il pensiero attuale, perché tale distinzione riguarda soltanto quello pensato: l’atto del pensiero può offrire esclusivamente l’impressione o il senso della certezza, ma non è capace di giustificare sé stesso. Quindi, se la vita della conoscenza consiste in un incessante superamento delle fasi precedenti. perché ogni suo momento diviene un oggetto, cioè un pensato, per l’atto di pensiero che lo segue, è chiaro che tutto il processo conoscitivo risulta di momenti che sono destinati fatalmente a cadere nella sfera dell’errore. Come si può pretendere che la storia del pensiero offra una serie di vittorie, di affermazioni, di verità sempre più piene, se il concetto del vero implica necessariamente i caratteri della perennità e dell’immutabilità?

E altre ragioni di dubbio si presentano alla mente. Pensare significa essenzialmente giudicare: ma il giudizio che non si riduce a una pura tautologia implica, nelle sue forme fondamentali, l’unificazione di una vera molteplicità; ossia una contraddizione insanabile, perché è sempre valida, sebbene troppo facilmente posta in oblio, la tesi eleatica che l’uno non può essere molteplice come questo non può essere quello. Una contraddizione insanabile inerisce dunque necessariamente al procedimento essenziale di quel pensiero che pure riconosce nel principio di non-contraddizione una norma assoluta e inviolabile della conoscenza. E ciò non basta. Quel principio e le altre leggi supreme del pensiero, che affacciano la pretesa di possedere validità assolute, come la giustificano? È certamente vano ogni tentativo di darne la dimostrazione, perché qualunque procedimento dimostrativo li presuppone; si potrà però cercare di giustificarli mostrando che sono necessariamente implicati da qualsivoglia atto normale di conoscenza e, soprattutto, che essi costituiscono la condizione imprescindibile dell’intelligibilità, del pensiero di fronte a sé stesso, perché la mente non può comprendere come un’attività pensante che non li rispetti possa ritenersi legittima. Ma tale procedimento di giustificazione, che nelle due forme che assume è tutt’altro che semplice, non può includere qualche errore?

Inoltre il carattere di presupposto ineliminabile della conoscenza che io riconosco in essi, mi viene attestato ora da un mio stato d’animo personale e soggettivo, che non può garantire la propria necessità e la propria immutabilità; sicché non è escluso il sospetto che in altre condizioni lo possa pensare senza sottostare a quelle norme, o almeno che qualche essere diverso da me sia capace di farlo.

In conclusione, le basi su cui poggia il mio pensiero (l’ unico di cui possa parlare) non appaiono assolutamente sicure, perché non è capace di garantire le validità necessaria dei criteri di cui non può non servirsi per valutare la legittimità di ogni sua affermazione. Per uscire d’impiccio debbo, moltiplicando gli atti di fede, credere nella certezza assoluta delle leggi del pensiero. Si può obbiettare che lo stesso dubbio implica il riconoscimento di un criterio di verità e che perciò lo scetticismo universale è impossibile; ma a ciò si può rispondere che il motivo sufficiente di dubbiezza è il sospetto di potere provare il senso assoluto della certezza in condizioni completamente diverse dalle presenti; e tale possibilità appare quando si deve riconoscere che dei principi supremi del pensiero non si può dare una giustificazione definitiva.

Si osserverà che lo scetticismo, per giustificarsi, è costretto a valersi di procedimenti intellettuali che appaiono sospetti, perché vengono svalutati dalle critiche che colpiscono ogni esplicazione del pensiero. Se lo scettico pretende che le sue argomentazioni non siano sospettabili, riconosce che esiste almeno una verità sicura, la proposizione che di tutto si deve dubitare. Quindi lo scetticismo deve o togliere valore alle proprie argomentazioni o contraddirsi. Ma queste osservazioni non feriscono Io scetticismo vero e proprio, che involge sé stesso nel proprio dubbio, ossia è incerto anche sul valore delle proprie conclusioni. Però il dogmatico che pretende di impiegare il dubbio per demolire lo scetticismo deve cominciare con ammettere una tesi che distrugge le proprie premesse, perché lascia cadere l’ombra dell’incertezza su ogni forma di conoscenza, mentre il suo avversaria chiede che ogni proposizione possibile appaia dubbia. Fin nell’antichità i fautori dello scetticismo hanno riconosciuto che questo è disposto a perire insieme col suo nemico, mentre il dogmatismo vorrebbe sopravvivere alla lotta. Lo scettico intende presentare non una tesi certa e indiscutibile, ma una critica del dogmatismo e delle sue pretese.

Ciò non significa che il dubbio debba colpire nella stessa misura tutte le affermazioni possibili, perché alcune (i principi logici e, anche più, il loro presupposto, che è l’affermazione del mio stesso pensiero) mi appaiono ora assolutamente certe; ma chi mi garantisce che tale convinzione non debba mutare? Alcuno può ritenere che lo scetticismo conduce al dissolvimento di ogni certezza morale e quindi all’immoralismo, altri, per contro, può affermare che l’incapacità in cui si trova il pensiero di giustificare sé stesso mostra che la funzione teoretica deve essere subordinata a quella etica, la quale impone di eliminare i dubbi che appaiono funesti per la condotta; ma ambedue queste opinioni sono inaccettabili. La prima fa dipendere la vita etica dalle determinazioni del pensiero. la seconda pretende che questo si sottoponga alle esigenze di quelle; ma la teoreticità e l’eticità costituiscono due funzioni spirituali autonome, indipendenti, sicché è vano volere subordinare l’una all’altra. I fini e le norme della condotta sono riconosciute dalla coscienza valutativa, non dal pensiero, il quale, quando le valutazioni fondamentali siano state compiute, può cercare di derivare dai principi etici supremi le conseguenze che implicano di portare ordine e armonia nelle esplicazioni particolari dell’attività morale, ma non deve presumere di possedere autorità legislativa rispetto a questa.

D’altra parte, non è permesso di trasformare le norme etiche in criteri di valutazione delle affermazioni del pensiero. Si è detto spesso che questo implica un’attività che ha carattere volontario e che perciò compie una funzione essenzialmente etica, sicché le esigenze morali si debbono imporre anche alla conoscenza. Ma così si identifica in modo illegittimo quella particolare attività che è immanente al pensiero, la quale si propone un fine puramente interiore, la ricerca del vero, e riconosce un solo dovere, tendere ad esso senza lasciarsi dominare da altri motivi, con l’attività etico-pratica, che è rivolta (almeno parzialmente) al conseguimento di finalità esteriori e ha l’obbligo di conformarsi alle leggi della condotta. Chi volesse applicare lo scetticismo alla vita morale sorpasserebbe i limiti assegnati al pensiero; chi pretendesse, per sottrarsi ai dubbi cui questo conduce, di valersi di motivi etici, verrebbe meno al dovere assoluto della funzione teoretica, il rispetto della verità. Allo scetticismo teoretico si contrappone quindi il dogmatismo etico.

Però il dovere supremo del pensiero che ora si è ricordato mi impone di non chiudermi in un dubbio calmo e indifferente, ma di proseguire instancabilmente la ricerca se lo stesso scetticismo non può offrire certezza neanche rispetto alle proprie conclusioni, io non ho il diritto di fermarmi a questo e di riposarvi. La certezza che mi è sfuggita, che ora non mi appare conseguibile, deve essere però ricercata, senza posa, ma non ho il diritto di pretendere di avere trovalo la via che permette di arrivarvi.

In ogni modo, posso chiedermi quale sarebbe la concezione più soddisfacente della realtà, cioè la forma più plausibile di dogmatismo, se avessi ragione di confidare nella validità del pensiero, considerato sia nel suo funzionamento interiore, sia nei suoi rapporti con la realtà stessa. In altri termini se, con un atto di fede, ammetto che ai dubbi scettici si possa dare una risposte. A quale interpretazione totale ed esauriente dell’esperienza mi sarà dato di giungere? È chiaro che potrò costruire una concezione metafisica valida in modo provvisorio, non definitivo, più plausibile delle altre, non indiscutibilmente sicura: infatti dovrà sempre ricordare che per ottenere una dottrina positiva, sono stato costretto a uscire da dubbi che non ero capace di risolvere razionalmente, con un alto di fede razionalmente non giustificato che mi costringerà, alla fine della nuova ricerca, a considerare con sospetto le conclusioni che avrò ottenuto. Se temporaneamente sostituisco l’atteggiamento scettico con quello dogmatico, debbo stabilire subito la natura problematica della concezione metafisica che troverò preferibile alle altre.

Ciò posto, una cosa mi pare chiara: dovrà apparirmi la più plausibile interpretazione dell’esperienza la teoria che derivi in modo necessario dalle condizioni essenziali della conoscenza, perché questa, e questa soltanto, mi permette di formarmi una concezione della realtà, anzi di parlare di un reale qualsiasi. Le dottrine filosofiche che pretendono di svalutare l’atto del conoscere e di ridurlo a un oggetto fra gli altri, sono viziate da un’intima contraddizione, perché senza riconoscerlo, costruiscono una teoria della conoscenza che forma il presupposto implicito della loro metafisica. È egualmente insostenibile la tesi propugnata da recenti filosofie realistiche (che sotto la parvenza della novità, ripresentano le credenze del realismo della coscienza comune), che è ben vero che l’oggetto in quanto è tale implica un soggetto, ma non deve a questo né la propria esistenza né le proprie qualità. Anche se si ammette col realismo che esistono molteplici soggetti indipendenti da essi, bisogna riconoscere che almeno in certi casi è impossibile affermare senza cadere in assurdità e in contraddizioni, che i secondi posseggono in sé le qualità che ci mostrano: basta accennare ai fenomeni che hanno fatto parlare della soggettività e della relatività delle proprietà sensibili. Quindi nulla prova che, in generale, le cose, se esistono, siano tali quali appaiono; tutt’al più, se ne potrà ammettere l’esistenza, ma della loro natura nulla risulterà con certezza, perché ogni affermazione che si faccia su di essa si riduce a una ricostruzione del pensiero che cerca di coordinare e di interpretare meglio che può i dati dell’esperienza: ora, quale garanzia posseggo che a tali interpretazioni la realtà debba corrispondere? Se anche esiste un reale indipendente da me deve rimanere impenetrabile al mio pensiero. Si dirà che almeno l’esistenza di oggetti che non dipendono da noi deve essere ammessa perché siamo passivi di fronte ad essi, tanto è vero che non soltanto sappiamo che certe nostre modificazioni non sono prodotte da noi. ma anche che in certi casi siamo costretti a subirle contro la nostra volontà? Me anche l’impressione di subire certe modificazioni è soltanto una nostra modificazione, e l’affermazione che essa implica l’azione di oggetti diversi da noi si riduce a un tentativo di spiegazione che il pensiero cerca di darne, valendosi principalmente del principio causale, che è, in ultimo, un mezzo per rendere intelligibile l’esperienza, ma non possiede il valore dei principi assolutamente necessari del pensiero. Anzi, la sola posizione di una realtà indipendente da noi è un prodotto del pensiero e presuppone implicitamente un soggetto che si rappresenta quel reale. Del resto, i fenomeni delle allucinazioni e dei sogni provano che, anche se si accettano le premesse del realismo, vi sono casi in cui il senso della passività di fronte a un presunto oggetto non garantisce la esistenza reale di questo. Quindi l’argomento più forte del realismo prova solamente che la sfera della soggettività è più ampia di quella della attività, perché include fenomeni sperimentali del soggetto, ma non prodotti volontariamente da lui. Ciò che si è detto si applica anche alla presunta esistenza di soggetti diversi e indipendenti da me. Non vale obbiettare che io esperimento il pensiero di un altro soggetto come diverso dal mio, che avvertendo la sua simpatia o la sua avversione per me mi rendo conto che sono atteggiamenti che assume a mio riguardo una coscienza distinta dalla mia. Tale esperienza è mia, e soltanto mia, e non vedo quale differenza debba porre fra questi stati e l’impressione che provo talvolta sognando di avere di fronte e me altri soggetti che si oppongono alla mia volontà, che pronunciano parole che per qualche tempo e anche per sempre mi appaiono incomprensibili.

Per quanto cerchi di difendere il realismo (e le obbiezioni che apparentemente altri muove al solipsismo che difendono si riducono a critiche che io sollevo alle mie stesse affermazioni), non posso certamente dire che in questi casi ho da fare con esseri indipendenti da me. La impossibilità in cui mi trovo di sorpassare la sfera della mia coscienza risulta a ciò, che non posso nemmeno parlare di una esistenza indipendente dal mio pensiero senza contraddizione, perché esso è il presupposto assolutamente ineliminabile di ogni atto conoscitivo. La metafisica solipsistica, che riduce tutta la realtà oggettiva a un contenuto del mio pensiero, deriva quindi dalle esigenze fondamentali della conoscenza; e insieme corrisponde alle condizioni concrete dell’esperienza, perché mentre il mio io presente è il presupposto ultimo del conoscere, tutto ciò che posso sperimentare è esplicitamente collegato con esso, come col suo centro costante di riferimento. Quando in apparenza varco i limiti della mia esperienza e della realtà del mio io, effettivamente non faccio altro che interpretare in un certo modo i determinati contenuti di tale esperienza, valendomi di procedimenti del mio stesso pensiero. Sinché intendo di imporre silenzio al più assoluto dubbio scettico, debbo riconoscere che l’unica realtà che posso affermare è quella del mio io.

A questo punto si può presentare l’obbiezione che il necessario presupposto ultimo del conoscere non è il mio io personale, empirico, ma l’Io assoluto, che costituisce la vera realtà e l’unità profonda dei diversi soggetti individuali in cui si realizza; questi possono diventare oggetti di pensiero, mentre quello è il soggetto puro che non può mai essere oggettivato. Ma questa dottrina, che pretende di superare il realismo, vi ricade inconsapevolmente, perché il suo Io puro non è altro che un oggetto ricostruito dal mio pensiero, non è il dato immediato della mia esperienza e non è il presupposto vero della conoscenza di cui posso parlare, perché questa implica il mio io, non l’Io. Di più, prima di parlare di questo, debbo ammettere che esistano soggetti molteplici che in tale Io hanno la loro unità e la loro realtà; ma con quale diritto affermo l’esistenza di essi? Inoltre, stando a tale dottrina, non vedo ove si possa riporre la realtà, perché l’Io assoluto è reale solamente in quanto si realizza negli io empirici, e questi, a loro volta, ben lungi dall’essere reali, sono oggettivazioni del soggetto puro, e così rientrano nella sfera del pensato, che per la tesi che si discute è il dominio dell’errore. E non comprendo nemmeno come quella teoria possa dar ragione della convinzione che provo di essere non un’espressione dell’Io puro, ma un soggetto personale, l’unico che possa chiamare io.

Una volta ancora ho ragione di affermare che dalla sfera della mia soggettività non posso uscire. Tutti gli oggetti, tutti i cosiddetti soggetti diversi da me di cui posso parlare si riducono ad aspetti della mia esperienza, a termini variabili di quel rapporto conoscitivo che ha nel mio io il suo centro costante di riferimento. Ciò che chiamo le percezioni del reale si distinguono dai sogni e dalle illusioni perché presentano relazioni regolari e permanenti che a questi ultimi mancano.

Ma il solipsismo non si può fermare qui: perché io non ho ragione di superare l’istante presente e di ammettere la realtà della successione temporale, del passato e del futuro; essi sono puramente il risultato dell’interpretazione che ho di certi aspetti della mia esperienza attuale. È quindi chiaro che quelli che chiamo i ricordi del mio passato e inoltre i fenomeni che appaiono succedersi nel tempo, il decorso della vita storica, si debbono spiegare nello stesso modo; si tratta di una interpretazione di contenuti presenti della mia coscienza simile a quella che ho quando, vedendo un quadro, ordino su piani diversi, più o meno lontani, le figure che esso presenta su un piano solo.

Però se il solipsismo permette di dar ragione di tutti i fatti della mia esperienza e perciò è teoricamente inattaccabile, perde valore sul terreno dell’etica. La coscienza morale mi impone di riconoscere la realtà autonoma di altri esseri umani, di altre personalità che sottostanno alle stesse norme che si impongono a me: io ho dei doveri verso di loro e non posso quindi ridurli a contenuti della mia esperienza. Ora, questo conflitto irriducibile fra esigenze ugualmente imperiose del pensiero e della condotta è doloroso, perché mi pone in uno stato di continua lotta interiore, in quanto mi costringe a uscire con l’azione dalla concezione che mi formo della realtà. — Inoltre anche il solipsismo, come ogni metafisica, implica quell’unione dell’unità e della molteplicità che è un’insanabile contraddizione: la mia esperienza offre aspetti molteplici che si organizzano in un tutto solo, e questo è un fatto insieme innegabile e incomprensibile. Di più, sono costretto a riconoscere che la sfera della mia soggettività è più ampia di quella mia attività volontaria e perciò debbo chiedermi vanamente come e perché ciò che non può essere altro che un contenuto della mia esperienza assuma l’aspetto di una realtà che mi si contrappone.

È vero che contro simili difficoltà deve lottare ogni metafisica che non ammetta la tesi del realismo, di cui si è indicata l’assurdità; anche il monadologismo, per esempio, non può spiegare perché ogni soggetto debba rappresentarsi come esseri corporei realtà che in sé hanno natura spirituale; ma se il solipsismo è, sotto questo rispetto, in condizioni non peggiori di altre dottrine, si vede pur sempre costretto ad accettare qualche cosa di più di un fatto inesplicabile, l’esistenza di un contrasto invincibile fra la natura della realtà e l’aspetto che gran parte di essa assume agli occhi dell’io che la considera. E un’osservazione simile si deve fare a proposito del conflitto che esiste fra l’impossibilità di superare l’istante presente e la parvenza illusoria di successione temporale che offre il contenuto dell’esperienza. Di più, il mio io personale, che esaurisce la realtà, non può mai essere conosciuto quale è, perché se voglio averne notizia debbo da soggetto trasformarlo in oggetto di pensiero, ossia falsarne la natura essenziale.

In conclusione, il solipsismo, cioè quel dogmatismo cui sono giunto abbandonando, pur senza risolverlo, il dubbio fondamentale dello scetticismo, se è la metafisica migliore o meno peggiore delle altre, include però irrazionalità innegabili. Il fatto che una concezione derivata dalle condizioni ultime del conoscere porta a risultati di tal genere rafforza fortemente le incertezze dello scetticismo sulla validità del pensiero; perciò, al termine della ricerca metafisica, ho un nuovo motivo per ritornare alle posizioni abbandonate provvisoriamente e temporaneamente. Cosi ricado in un dubbio che è irrequietezza tormentosa, perché sento il dovere di riesaminare sempre di nuovo i problemi del conoscere e dell’essere, senza riuscire mai a scorgere nemmeno da lontano la probabilità di conquistare quella certezza cui aspiro e in cui vorrei riposare. E il mio dubbio è tormentoso e lacerante soprattutto perché mi lascia senza risposta davanti al dramma della vita e della morte, ai problemi del dolore e del male e non mi permette di affermare, anzi nemmeno di supporre, che le lotte e le sofferenze degli esseri viventi abbiano uno scopo e una ragione, che la esistenza possegga un significato e un valore. Ma anche se essa si riduce a un tessuto di lotte vane, di dolori privi di giustificazione, anche se non ha alcuna mèta e alcun senso, io debbo, a qualunque costo, fare ciò che alla mia coscienza morale appare dovere: in essa, e in essa soltanto, trovo un’evidenza che non ammette discussioni e dubbi. Quando si passa dalla sfera della conoscenza a quella dell’azione, lo scetticismo teoretico deve cedere il posto al dogmatismo etico.


In «L’archivio di filosofia» (fasc. 3, n. 3, novembre 1931) e in opuscolo (Lanciano, Carabba, 1931).