“Fra vento e mare…” e “Il sole della Riviera”: due racconti liguri di Egisto Roggero

Mar Ligure

“Noi liguri si parte; si va pel mondo, ci si perde in esso; si va a portare nelle più lontane plaghe il nostro lavoro e le nostre energie. E portiam con noi la fierezza che ci ha fatto fama di rudi e la poesia indomata ch’è in fondo a tutti i nostri cuori, poesia che ci ha messo, nascendo, negli occhi e nell’anima il nostro mare, il nostro cielo, il nostro bel sole, le nostre colline pallide di ulivi ed i giardini vividi di fiori e di palme.” Narratore e saggista piuttosto prolifico e dalla vena creativa diseguale, alcuni dei migliori racconti di Egisto Roggero (Genova, 1867 – Milano, 1930) si leggono nella sua raccolta più “ligure” pubblicata nel primo dopoguerra, I racconti della mia Riviera (Milano, Treves, 1918), dalla quale sono appunto ripresi Fra vento e mare… e Il sole della Riviera, qui riproposti al lettore. (effe)

FRA VENTO E MARE…

— Io passo, voi lo sapete, fra’ miei amici per l’uomo più sano e più equilibrato della terra. Davanti al mio tavolo da lavoro io sono il lavoratore più calmo e sereno: quando ho in bocca una buona sigaretta, un bel libro fra le mani, un bel fiore sulla caraffa che tengo costantemente sulla mia scrivania, io ho, dicon sempre i miei amici, l’aspetto più completo di uomo felice. La mia bionda testa di bel giovane (so anche di essere un bel giovane, e non trovo la ragione di tacerlo per una stupida quanto inverosimile modestia) pare fatta apposta per dar assoluta ragione a’ miei cari amici quando dicono: «Ecco un uomo che sa assaporare la vita in tutta la sua più cara e dolce pienezza».

Eppure, debbo dirlo? Non è, proprio, precisamente così. No. Anche in me v’è la solita seconda anima che molto spesso si diverte a tormentarmi acerbamente. Giacché lo sapete ben tutti che in noi sono due anime: una, la ragionevole, quella che ci aiuta a vivere; l’altra, quasi sempre di umore opposto alla prima, che bene spesso ci fa commetter delle pazzie. Questo ormai, è noto, ammesso, indiscutibile. Non c’è uomo sulla terra per ricco, povero, geniale, cretino che sìa, che non alberghi entro di se queste due anime quasi sempre in contrasto fra di loro. Ebbene, anche a me, molto spesso, una delle due mie anime — l’altra — mi fa de’ tiri più o meno bizzarri.

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Una, quella che mi dà l’aria beata e da filosofo epicureo, che mi fa simpatico agli uomini e aiuta i miei buoni affari, si mette a sonnecchiare: ed ecco subito l’altra che come un’aquila grifagna, dalle penne aguzze e dagli artigli adunchi, piglia il volo. Il mio corpo si contrae; il volto mi divien pallido, gli occhi inquieti; una corrente nervosa squassa tutto il mio essere, il cuore batte in tumulto, il sangue s’alza in tempesta… e a me sembra morire.

Gli amici dicon che sono un nevrastenico: ma io invece sento la presenza dentro di me di quest’altra anima che si sveglia a tumulto quando la prima, la solita, sonnecchia; e, unico mezzo per salvarmi, fuggire da’ luoghi a me solitamente abituali e davanti ad altri orizzonti sfogare come posso, folleggiando, imprecando, ridendo o spasimando la convulsione che la second’anima inquieta ha messo entro tutto il mio essere.

Sentite ciò che m’accadde non saran due settimane ancora.

Ero a tavolino, tranquillo, che leggevo una lettera di un amico, quando una smania, un fastidio, una frenesia di alzarmi e di fuggire mi fe’ avvertito che la second’anima si stava svegliando.

M’alzai, uscii, vidi il tram della Riviera, vi saltai sopra e respirai. Era una giornata inquieta come il mio animo e quale ve ne son tante in Liguria: delle grandi nuvole che correvano all’impazzata nell’azzurro, qualche sprazzo di sole, un vento pieno d’effluvi di mare e di polvere in abbondanza.

Il tram correva: da una parte era il mare tutt’azzurro e spumoso (ogni tratto erano certi scogli neri e dirupati che fìnivan in ischeggie nell’onda violacea) dall’altra gli oleandri e gli aranci che fuggivano squassati dal vento. Il mio cuore batteva e l’anima inquieta mi faceva tremare i polsi.

Il tram passò davanti a Nervi. Nervi dai giardini tutti in fiore, sempre in fiore: Nervi piena di palazzine, di pensions eleganti, di inglesi tisici e di tedeschi panciuti. Nervi, angolo di verde e di mare, dove tanto spesso sono andato a portare le mie frenesie passeggere.

Saltai giù dal tram e presi per una delle viuzze misteriose, sepolte tra le alte muraglie delle ville, che conducono al mare. Quivi corre la cosiddetta passeggiata sugli scogli: una stradetta tortuosa e accidentata, tutta fatta sui dirupi, ora quasi a livello dell’acqua, ora altissima su di essa.

Quel giorno il mare era in collera, come il mio essere: il suo azzurro intenso veniva crepato, all’improvviso, da larghe ferite che spumeggiavan subito di neve bianchissima e lucente pe’ mille guizzi. Il cielo in alto era tutto grigio, solcato da fenditure di sole: e certi gabbiani bianchi, dalle larghe ali aperte, sfioravan col petto, con voluttà, le creste delle ondate, tuffando il becco in quel ribollio per cavarne i disgraziati pesciolin’ sballottati nella spuma candida. Non so perché ricordai i primi versi d’una strana poesia di Heine, dove dice del mare, delle nuvole, della vita e della sua inutilità.

Stavo mormorandoli, quando voltandomi (ero appoggiato alla breve ringhiera di ferro ch’è sopra il precipizio) vidi poco lungi da me un bellissimo volto che, avendo certamente sentito i versi, mi osservava attentai mente e con una certa simpatica curiosità.

Il volto, come ho detto, era bellissimo, fresco e giovanile: gli occhi indimenticabili, la bocca piena di mistero. Un’aureola di capelli biondi coronava quella bella testa, posata sopra un’alta personcina snella ed elegantissima. Una miss, od una fraulein, certamente, delle infinite che vengono a svernare nel delizioso cantuccio di riviera. Cioè, delle solite, no. Era troppo bella perché la parola solita si potesse in qualsiasi modo adattare a lei.

La guardai intensamente: e la bellissima accettò serena e cortese l’intenso omaggio che tutto il mio essere palesò a lei col mio sguardo.

Poiché ella era poco lontana da me osai rivolgerle la parola.

— Come è bello! — esclamai, accennandole con la mano quei mare agitato e spumeggiante.

Ella sorrise divinamente e mi rispose con una favella a me assolutamente ignota. Ma capii che doveva parlarmi di quel mare e di quel cielo heiniano.

Allora io, sempre rivolgendomi a lei e al mare, presi a parlarle in italiano. Che cosa le dissi? non lo so. Uno strano estro mi accendeva di parlare: le parole mi sgorgavano facili e scelte, il periodo mi si formava melodioso, il pensiero s’alzava agile e fiorito come un canto — e la bella straniera mi ascoltava rapita, con un lieve sorriso sulla bocca bellissima, piena di mistero. Io parlava parlava: e nella loquela che naturale mi sgorgava dal cuore si andava acquietando il tumulto di poc’anzi. Io parlava, parlava: ed ella ascoltava, sorridente e commossa, una gentil fiamma ne’ begli occhi indimenticabili. Eppure io sentiva ch’ella non comprendeva una parola di tutte quelle ch’io gittava là, al suo orecchio, al vento pieno di salsedine e al mare agitato… Ella non poteva comprendere le mie parole, come io non aveva comprese le sue, della sua lingua a me ignota.

Eppure io continuava a parlare, sentendo che qualcosa di me, della mia anima pur penetrava nella sua, in quello strano momento d’intimità, lì, fra cielo, scogli, vento e mare.

Quando mi fermai un momento, ella mormorò, in uno strano italiano, questa volta, pieno d’inflessioni esotiche e di graziosissime sfumature di pronuncia a me ignote:

— Quanta bella musica!

Poi come presa da un pensiero ella si volse e mi disse: — Venite un poco con me.

Sorpreso e alquanto indeciso la seguii.

Ella mi condusse presso una delle villette sul mare, ne aprì il cancello nascosto fra le rose e i carpini, mi fé’ attraversare un breve cortiletto ingombro di dracene, di clematidi e di passiflore, e mi fé’ entrare in una saletta ove una vecchia signora, seduta sur una poltroncina, mi guardò un poco meravigliata. La vecchia signora aveva un viso bianco, i capelli di neve e un sorriso dolcissimo e buono che la illuminava tutta. Al suo sguardo stupito e interrogativo la fanciulla rispose con alcune parole della sua lingua a me sconosciuta, alle quali la vecchia sorrise alquanto e mi salutò.

Poi la strana creatura staccò dalla parete un violino, l’accordò brevemente, e volta a me ripeté nel suo bizzarro italiano:

— Venite con me.

Aperse un balcone e apparve di nuovo il mare. Ella usci sulla loggetta, che dava a picco sugli scogli, ed io la seguii.

Ed ella prese a suonare.

Suonò, suonò, una musica strana, dolcissima a volte e tutta scatti all’improvviso e arabeschi bizzarri. Mai io aveva sentito musica simile. Pensai per un momento a Niels Gade, il norvegese appassionato e fantastico, ma quella non era la musica dì Niels Gade.

Ella suonava guardando il mare e io l’ascoltava rapito.

In quella sua voce, parlata per mezzo del violino, c’eran carezze, fremiti, singulti, gemiti, rotti a tratti da pazzi scoppi di risa giovanili.

E il suo viso accompagnava il discorso del suo violino. Ora s’empieva di sorriso, ora si contraeva per le lagrime: ora luminoso e beato, ora livido e truce.

Suonò, suonò… quanto suonò? Non saprei dirlo.

Il mare, sotto, che s’era fatto più agitato, accompagnava il suo canto.

A un tratto, con uno strappo di tutte le quattro corde, finì.

Mi prese la mano e con una fresca risata mi disse in francese: — Ora vi ho parlato anch’io, come poco fa voi, con la mia musica. Non so però se la mia musica valga quella della vostra meravigliosa favella. Ed ora potete andare. Addio.

Rientrò nella salettina, ove la vecchia signora, bianca e pallida, ci accolse di nuovo col suo buon sorriso.

La fanciulla mi strinse ancora la mano, forte, all’inglese:

— Addio, addio, andate ora.

E gentilmente mi sospinse pel cortiletto fino al cancello quasi sepolto fra le rose ed i carpini.

Prima che il cancelletto si richiudesse dietro di lei, ebbi il tempo di dirle ancora, in tono di affannosa preghiera:

— Vi prego, ditemi il vostro nome, almeno.

— Viviana, — ella esclamò, e con l’ultimo guizzo del suo sorriso chiuse il cancello.

Naturalmente, amici miei, non l’ho riveduta mai pili, e la mia anima — quella strana — me la rievoca, talvolta, ne’ suoi momenti di bizzarria.

IL SOLE DELLA RIVIERA

Gianni era entrato al Sanatorio di Nervi in una giornata di febbraio. Nulla più egli ricordava di quel mattino invernale: se non che il sole luceva come di piena estate e che egli aveva un atroce dolore al petto dal lato sinistro, e lo assordava un grande martellamento alle tempie. Ricordava il sonno profondo che lo aveva còlto appena si era messo, tutto rabbrividente, tra le grosse lenzuola di bucato, odoranti di acido fenico. Poi ricordava anche, confusamente, la prima impressione delle spaziose camerate, gl’innumerevoli letti allineati, le tabelle, gli scoppi di tosse che dominavano ogni altro rumore, sempre, incessantemente, di giorno e di notte; i visi pallidi delle suore affaccendate nelle tuniche color di piombo. Sulle grandi vetrate si ostinava a battere il sole, e il mare che veniva a lambire a’ piedi il Sanatorio, sempre agitato, rumoreggiava senza tregua, con un sordo brontolio di collera rotto da scoppi impetuosi che facevano tremare tutto il fabbricato. Cosi per due mesi; notte e giorno, solo orizzonte le camerate piene di luce e di lamenti e la lunga fila di letti pieni di visi pallidi; cosi per due mesi, notte e giorno, non potendo prender più sonno dopo quel primo letargo affannoso, durato parecchi giorni. Grande era stato quell’inverno la mortalità nel ricovero: il suo vicino di destra se n’era andato lesto lesto, il quarto giorno dopo il suo arrivo, e Gianni aveva assistito nella febbre al breve viatico, all’agonia dolorosa, e si era svegliato nel cuor della notte, all’improvviso, quando due infermieri lo portavano via, avvolto nel lenzuolo, tenendolo uno per il capo, l’altro pe’ piedi. Egli si era nascosto rabbrividendo sotto le lenzuola e aveva pianto di paura, come un bambino.

Così passarono molti giorni, senza ch’egli osasse più guardare il letto a lato, sinché una mattina si senti chiamare. Era il nuovo vicino, venuto nella notte ad occupare il letto lasciato vuoto da quell’altro, Anche questi non aveva un viso da tirarla molto alla lunga: aveva un volto affilato, coperto da una breve barba ispida, cresciuta durante la malattia, e due povere braccia livide e stecchite. Si lamentava sempre di un gran dolore «al respiro» e talvolta era preso da lunghe ore melanconiche nelle quali piangeva come un bambino, chiamando la madre. E Gianni guardava sbigottito quell’uomo di trentacinque anni che piangeva chiamando la madre.

Altre volte pareva più sollevato e parlava del sole, del sole della Riviera, a cui venivano mandati tutti dai più lontani paesi e che doveva guarirli. Ne parlavano tutti, di quel sole, come di un farmaco infallibile e buon amico. Avevano in esso una fede cieca, assoluta. E il buon sole, biondo e allegro, continuava a scherzare sulle grandi vetrate, sopra quel mare che non si vedeva ma che faceva sentire la sua voce forte in ogni ora del giorno e della notte.

Ma un mattino, verso i primi dell’aprile, alla visita, Gianni si sentì dire dal medico che poteva cominciare ad alzarsi e che presto sarebbe passato nel reparto dei convalescenti. Guariva! dunque era vero. E lo doveva al sole della Riviera, che Dio lo benedisse sempre. I primi passi li diresse verso la grande vetrata che per tanti giorni aveva avuto di faccia in fondo alla camerata e che tanto aveva studiato nelle lunghe ore di letto.

Ne conosceva ogni linea, ogni riflesso, ogni giuoco e ogni venatura dei vetri. Voleva salutare il sole, suo benefattore, e poi vedere il mare, quel mare sempre in collera che mai s’era taciuto, né giorno né notte, e che gli aveva dato tanto da fantasticare. E il mare gli apparì azzurro e sereno, una immensa distesa quieta che si confondeva col cielo. Esso veniva a lambire gli scogli su’ quali s’alzava il Promontorio, con piccoli baci di spuma candida. Quello non era il mare che aveva sentito nell’affanno delle lunghe notti di febbre. Era un mare allegro, tutta luce e buone promesse. Era il fido compagno del sole — il buon sole che guariva tutti — e giocherellava con lui come due buoni amici che vanno d’accordo e che se la intendono bene.

La settimana dopo, come gli aveva promesso il dottore, passò nel reparto dei convalescenti. Qui cominciò a stare quasi bene. Non più lamenti, non più scoppi di tosse che schiantavano il petto, non più viatici e rantoli di moribondi. Cerano delle camerate grandi e spaziose, tutte aperte al sole e piene della voce e dell’odore fresco del mare. Poi c’era il giardino, grande e ricco di alberi, e tutto gaio di fiori anche, da cui, da sopra un muretto, si poteva vedere tutta la cittadina, piena di alberghi, di villette e di grandi parchi. V’eran anche una quantità di sedili di ferro bassi e quasi soffici.

Vi venivano pure le donne, le ricoverate dell’altro braccio del Sanatorio, il reparto femminile. Si era quasi allegri, laggiù. I convalescenti passavano le migliori ore della giornata nel giardino, sotto la cura del sole, il buon amico, e guardavano il mare che mandava loro il suo alito pieno di vita e di salute. E si facevano conoscenze e si stringevano amicizie.

Gianni aveva stretto relazione con un vecchietto, dalla pelle color d’ambra smorta, spedito da un pezzo e che da tre anni ch’era colà aspettava per turno l’autunno l’inverno, la primavera e viceversa senza decidersi mai ad andarsene. Egli diceva ridendo ch’era colpa del sole, di quel buon sole della Riviera,che non gli permetteva di fargli torto e non lo lasciava spiccare il gran volo. Scherzava sul suo male e aveva fatto le sue abitudini nel Sanatorio: ci si trovava ormai come in casa sua. Sapeva tutto, era informato di quanto avveniva là dentro, istruiva i nuovi, li consigliava, godeva una certa confidenza da parte delle suore e riceveva contento gli scherzi degli infermieri.

Gianni lo ascoltava discorrere a lungo, guardando la bella cittadina tutta ridente di luci e fiorita di giardini che si profilava sotto di lui in pieno sole.

Tra le ricoverate aveva notato una biondina giovane che se ne moriva lentamente di mal sottile. Aveva le mani di cera, il volto affilato, due piccole orecchie color di cenere. Gianni aveva scoperto ch’era del suo stesso paese e le aveva rivolto la parola in dialetto. La biondina lo aveva guardato piacevolmente sorpresa, aveva risposto nello stesso dialetto e avevano fatto così amicizia. Si videro molte volte nel giardino, vicino al muretto che guardava su Nervi. Egli le aveva raccontato la sua storia ed ella la sua, e cosi avea saputo come s’era preso il male al petto che la teneva lì dentro dal marzo. Dunque erano venuti insieme al Sanatorio! Una combinazione: stesso male, stesso tempo e stesso paese! Era ben contento lui di averla conosciuta: in due si sarebbero fatti meglio coraggio e sarebbero guariti più presto, no? giacché bisogna guarire, perdinci! Alla barba dì tutti quei visi pallidi che dicevano che là dentro non ci si veniva che per morire! Bisognava raccomandarsi al sole, quel buon sole amico dei malati che fidano in lui: esso non tradiva.

Lei ascoltava sorridendo: forse sperava anch’essa. Quanto a Gianni era sicuro di guarire: la primavera con tutto quel sole lo aveva rinforzato di molto, non sentiva più nessun dolore nel respirare. Ed ogni giorno che passava non mancava dì far constatare alla sua amica le prove della salute che sentiva ritornare nel suo corpo e i progressi ch’egli trovava nel viso dì lei, che secondo Gianni cominciava a rifiorire a meraviglia. Però uno, due, tre giorni di seguito ella mancò al solito ritrovo: Gianni s’informò e seppe che aveva avuta una ricaduta. Cominciò a sentirsi anche lui di nuovo male e per due giorni non sì alzò da letto.

Ma un bel mattino finalmente la vide di nuovo in giardino più cerea e più affilata che mai. Egli le fu subito vicino. Era tanto contento e tanfo commosso che non seppe lì per lì che cosa dirle e rimase un bel pezzo a sorriderle come un ragazzo. Poi, per la prima volta, le prese una delle manine color di cera e diaccia diaccia e la guardò negli occhi, ne’ poveri occhi, l’unica cosa che le fosse rimasto di ancor vivo nel volto.

— Sapeste! mi avete fatto una paura, non facendovi veder più, a quel modo, per tanto tempo!…

Ella arrossì tutta e si voltò a guardare la cittadina, senza rispondere e senza osare guardarlo più in viso.

Cosi egli ricominciò a sparare più che mai e fantasticare sopra i suoi sogni di guarigione. Intanto la primavera passò: poi anche l’estate se ne fuggi rapidamente e l’autunno giunse ben tosto e con l’autunno molti dei ricoverati si prepararono ad andarsene per lasciare il posto ai nuovi che l’inverno avrebbe cacciato a dozzine nei letti delle camerate. Molti visi pallidi cominciarono a mancare. Fu un autunno cattivo: il sole imbronciato parve essersi dimenticato dei suoi malati, che pur gli erano stati sempre fedeli, e si fece veder poco. Tante speranze tenacemente nutrite si dileguarono: e il grigiore del cielo autunnale, insolitamente fosco, cominciò ad invadere le camerate del grande Sanatorio.

Si sentivano tutti morire, uno alla volta.

Non si lamentavano, non si disperavano: non rimproveravano neppure il sole, il buon sole della Riviera, che mancava così alle sue promesse. Sapevano che era il loro destino; eran là dentro per quello: per morire uno dopo l’altro, per lasciare il posto a quelli che sarebbero venuti appresso a loro. Giacché questo degli altri che sarebbero venuti dopo s’era fatta come l’idea fissa di tutti que’ ricoverati. — Se non ce n’andiamo noi, dove si metteranno i nuovi? — Così diceva ogni momento, con la sua tossetta secca, il vecchietto dalla pelle color d’ambra. — Il sole è stanco di noi: aspetta quegli altri per ritornar fuori! Ma lui intanto non se n’andava mai!…

Anche Gianni comincio a sentirsi dolere il petto più forte e farsi più faticoso il respiro. I suoi sogni di guarigione che l’avevano tenuto così fiducioso tutta l’estate cominciarono a sfumare come tutti gli altri, ora che il sole non voleva più saperne di essi.

Solo quel vecchietto maligno non cambiava d’un pelo, con la sua vocetta secca e le mani grinzose e tremanti! La biondina veniva ancora: un giorno sì e parecchi altri no, sempre più diafana e cerea; parca diventasse più piccolina a vista d’occhio. E in cambio il suo sorriso era più dolce che mai.

Finalmente scoppiò una bufera di vento fredda e violenta che scosse tutto il Sanatorio e durò tre o quattro giorni empiendo le camerate di rantoli e di agonie; poi dopo la prima rabbia, il mal tempo cessò per incanto e ritornò a splendere il sole, limpido e caldo, per l’estate di San Martino.

E nel frattempo la biondina se n’era andata. Un mattino il vecchietto che s’ostinava a non voler morire e che sapeva tutto quanto accadeva nel ricovero, disse a Gianni: — Sapete? quella ragazza del vostro paese?… è morta stanotte alle due.

Egli non rispose, ma ripensò a quel suo vicino avvolto nel lenzuolo e ai due infermieri che lo portavano via per la testa e pe’ piedi. Era una giornata meravigliosa di serenità e di luce: il sole sfolgorava adesso. Dalla parte della passeggiata a mare veniva la musica dell’orchestrina che suonava un valzer allegro che la lontananza velava di una dolcezza languida. Il vecchietto color d’ambra batteva la cadenza col suo bastoncello sulla ghiaia del giardino.

Poi Gianni guardò in su, verso il sole; inutile ormai.

Quella sera nella cappelluccia del Sanatorio egli pregò a lungo. La stessa sera egli si mise a letto deciso a non rialzarsi più. E ripensò ancora a quel tale suo primo vicino di letto. E come quella notte, nascosto sotto le lenzuola, rabbrividì a lungo, ancora.