La cortesia (ieri e oggi)

”C'è persino chi disprezza la cortesia come tante altre eleganze del costume antico, figlio della morale cristiana, della cavalleria e di consimili superstizioni medioevali; e, predicando un verbo nuovo di violenza selvaggia, incita gli uomini a trattarsi, senza infingimenti, da nemici quali sono, senza rispetto alcuno alla persona altrui; perché rispetto non si deve se non alla forza vincente, e questa non ha da far cerimonie: urta, abbatte e passa”

persone

A Parigi, che si stima sempre la capitale della civiltà moderna, dicono che il mondo s’incanaglia. La stessa cosa ripetono molti anche da noi, massime nelle grandi città più agitate dai traffici. Vogliono dire, e non sono soltanto vecchi lodatori di tempi oramai remoti, che le relazioni personali si fanno oggi sempre più brusche e men riguardose, che gli uomini vanno perdendo l’antica benignità ed eleganza di modi nel trattare fra loro; gli uomini e anche le donne, non poche delle quali mostrano di intendere la cavalleria come un loro diritto ad averci in ogni incontro ossequiosi e ad esserci quando loro piaccia villane. Diritto delle gonnelle, evidentemente; perché oramai le persone, dell’uno o dell’altro sesso, hanno meriti pari, e più si agguagliano men si rispettano.

È naturale che la tradizione delle belle maniere scapiti alquanto nell’immenso moltiplicarsi dei rapporti sociali, fra tanta gente nuova che si riversa a ondate nei grandi centri e vi rimescola una moltitudine eterogenea, sconosciuta a sé stessa, in mezzo alla quale ciascuno sente di vivere fra gli estranei e, peggio, fra i competitori. Non per nulla c’è la filosofìa delle parole. Cortesia e gentilezza sono entrambe parole di tempra aristocratica. L’una viene da antiche case di signori, l’altra è sinonimo di nobiltà; e la nobiltà, per definizione, non può essere se non di pochi, mentre oggi il mondo è dei molti, se non ancora di tutti. La democrazia non ha ancora portato forse un terzo degli uomini alla superfìcie appariscente della società; ma opera da un secolo con tanta impetuosa energia, da far pensare che non andrà molto, e anche gli altri due terzi verranno a galla. Adesso è fanciulla, patisce i suoi mali di crescenza, ha le sgarbatezze dell’età che le madri chiamano ingrata. Probabilmente, quando sarà matura e padrona di sé, si comporterà con più dolcezza e buona grazia.

Intanto la società tutta quanta, travagliata dalla crisi profonda e dai bisogni crescenti a dismisura, lavora come non s’è lavorato mai al mondo, per guadagnare e salire, sicché la necessità fa ciascuno ansioso e impaziente, e lutti son cacciati innanzi dalla fretta universale. Ma la fretta, oltre ad altri suoi inconvenienti ben noti, ha anche questo che, secondo Dante, «l’onestade ad ogni atto dismaga» : toglie alla persona la decorosa compostezza, la bella dignità liberale e sorridente che fu propria dei nonni, vissuti in compagnia molto più ristretta e in tranquillità di azione e di rapporti, quale ora non si troverebbe più, se non fra coloro da cui in lingua nostra prende nome l’opposto della cortesia, cioè fra i villani.

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Ci vuole animo eguale e sereno, e più riposato vìvere e conversar cittadino che non sia il nostro, per serbare costante l’abito della compitezza. Oggi la gente ha troppo da pensare, da fare e da combattere nella guerra universale della concorrenza: bisogna compatirla se le manca l’agio di essere amabile. Anche l’urbanità è un’eleganza morale che non si può pretendere da chi ha lo spirito ingombro di infinite cure, le quali lo dispongono ad essere insofferente, diffidente e irritabile. C’è persino chi disprezza la cortesia come tante altre eleganze del costume antico, figlio della morale cristiana, della cavalleria e di consimili superstizioni medioevali; e, predicando un verbo nuovo di violenza selvaggia, incita gli uomini a trattarsi, senza infingimenti, da nemici quali sono, senza rispetto alcuno alla persona altrui; perché rispetto non si deve se non alla forza vincente, e questa non ha da far cerimonie: urta, abbatte e passa.

Tutt’insieme, non si vive davvero in un salotto, e i complimenti non sono il nostro forte. Ma appunto per ciò, man mano che il costume diviene più trascurato e ruvido, cresce di pregio la virtù di cortesia, in ragione della sua rarità. Virtù? Certamente, perché impone a chi la pratica un certo vigile dominio di se stesso, e non di rado costa sacrificio. Virtù inoltre per i suoi effetti, giacché serve mirabilmente, come ognun sa, a rendere più agevoli ed efficaci i rapporti fra gli uomini. È il lubrificante sociale: smorza attriti, scioglie impacci; agisce beneficamente di fuori con dar segno di benevolenza lusinghevole, e reagisce non meno beneficamente di dentro, inducendo l’animo, che con la durezza delle maniere si chiuderebbe, a codesta benevolenza. E poi, al pari di tutte le virtù, è anche un mezzo di riuscita. Chi ha da fare con molte persone, e tiene modi incivili, è un malaccorto: somiglia uno che voglia far correre una macchina senza ungere il nodo dei congegni. Gira gira, si guasteranno o piglieranno fuoco.

Il Labruyère definisce la cortesia «una certa attenzione a far sì che per le nostre parole e i nostri modi gli altri siano contenti di noi e di se stessi». Arturo Schopenhauer, il sagace orso tedesco, ne ha trattato filosoficamente nella sua Morale, raccomandandola come un atto di abilità e di prudenza insieme, virtù cardinale per i Cinesi, saggezza per tutti quanti, in qualunque forma di civiltà. Ma c’è sempre qualche cosa da aggiungere: una distinzione, per esempio, che mi sembra importantissima a questi tempi feroci, analoga a quella che Dante pone fra le due specie del suo «amor», origine e ragione d’ogni atto umano. Bisognerebbe distinguere, chi ne scrivesse un trattato nuovo, la cortesia «naturale», cioè istintiva, spontanea, organica; e la cortesia «di animo», cioè intenzionale e voluta.

Questa seconda è manifestamente la più utile e raccomandabile, e di gran lunga la più rispettata, perché chi la adopera ne è padrone, e quando non gli conviene non la adopera, sicché gli serve come strumento buono ai suoi fini, che però non gli prende mai la mano. E stando cosi sopra di sé, misurando la gentilezza degli atti secondo l’opportunità dei casi e delle persone, egli ottiene che queste si stimino favorite e gli rimangano riconoscenti, quando l’abbiano trovato grazioso; e quando invece siano state trattate con brusca indifferenza, sentano verso di lui maggior soggezione e, ancorché se ne dolgano, lo ammirino come uomo superiore, poiché sì poco gl’importa degli altri. Nulla vale a dar fama di altezza e di fortezza come una ripulsa, anco inurbana, a tempo e luogo. Il segreto del prestigio di qualunque autorità sta nel saper dire di no. Ma rifiutando cortesemente, sarai giudicato ipocrita; respingendo ruvidamente, avrai fama di carattere schietto e risoluto. Senza dire che veramente non tutti meritano cortesia, ed è cosa saggia allontanare da sé i men degni, disfarsi alla svelta delle compagnie non desiderate.

Disgraziatamente, è ben difficile star con l’animo sollevato in modo da usare così destramente della cortesia, e da goderne l’utile senza soffrirne i danni. «Fate ogni cosa per parere buoni, — ricordava il Guicciardini — che serve a infinite cose; ma perché le opinioni false non durano, difficilmente vi riuscirà il parere lungamente buoni, se in verità non sarete». Ahimè, che la cortesia è proprio una di quelle virtù, delle quali il Machiavelli insegnava che è necessario parer d’averle, ma che, avendole e osservandole sempre, sono dannose.

C’era una volta un genere di componimento, che fiorì per lunghi secoli, dai Provenzali ai primissimi nostri rimatori, ai berneschi, e che mi meraviglio molto non sia stato ancora esumato e rimodernato da qualcuno dei letteratissimi contemporanei, cosi «agognanti di rinnovellare»; voglio dire gli enuegs, le noie, rassegne argute delle seccature di cui la vita è piena. Piena ne era già in quei tempi patriarcali; ma quante se ne potrebbero aggiungere oggi al novero, che né Orazio né Gerardo Patecchio né quei bizzarri cinquecentisti provarono! Quante seccature dello stil nuovo sociale! Orbene, se si potesse farne il conto, si troverebbe che per metà esse sono retaggio comune dell’uman genere, e per l’altra metà sono particolare martello degli uomini cortesi, ai quali cosi toccano tutte quante.

Se la cortesia è naturale, congenita alla tua complessione, abito istintivo di amorevolezza, gentilezza, condiscendenza e liberalità; se tu sei cortese come sei bruno o biondo, cosi per tuo destino, e non sai essere diverso, e tutti per tale ti conoscono, che vita sarà la tua? Per pochi buoni come te, che ti avranno particolare affetto e stima, infiniti altri incontrerai che in cuor loro ti reputeranno uomo privo d’autorità, e della bontà tua si prevarranno senza sentirne gradimento e onore, poiché essa non è rivolta a loro soli, ma a tutti. E non sarai rimeritato, perché nessuno avrà timore di perdere la tua grazia, e i più si adopreranno invece a guadagnarsi quella più rara e pregiata dì chi abbia saputo umiliarli. Che se poi tu ti trovi, per qualche tuo talento od ufficio, in condizione di poter giovare altrui, la tua riputazione d’animo cortese ti farà bersaglio miserevole di tutte le seccature che l’indiscrezione della gente saprà inventare.

Non avrai amico o conoscente, vicino o lontano, che non pensi a servirsi di te in ogni suo bisogno, od anche per suo comodo o capriccio; non ci sarà alcuno che abbia soggezione di turbare la tua pace e di usurpare il tuo tempo, il tuo lavoro e il tuo danaro, che sono in fine una medesima cosa, come se fossero naturalmente a disposizione di tutti, roba senza valore. La posta e il telegrafo ti porteranno ogni giorno brighe e faccende incresciose; se hai in casa il telefono, dovrai sobbalzare ogni momento allo squillo del maledettissimo campanello, annunziatore di richieste importune. Se appartieni a qualche sodalizio o commissione, tu sarai quello sul quale i colleghi si scaricheranno del lavoro più fastidioso e più grave. Ti vedrai capitare innanzi lo sconosciuto procacciante o mendicante, il quale ti dirà, senza averti mai visto prima: Lei è tanto buono, Lei è tanto gentile… Tu avrai voglia di tirargli il calamaio su la testa; ma non lo farai, e dovrai stare ad ascoltarlo, e striderci, e penare per liberartene.

E da tutti, da tutti, disperatamente, da tutti quelli che verranno a te o ti scriveranno, ti sentirai ripetere le stesse angosciose parole: Ho bisogno di un gran favore… Tu ti domanderai: Ma sono io dunque un fattorino pubblico, una vettura da nolo, un confessionale, un’agenzia di raccomandazioni, scritturazioni e affari altrui? E quando a notte potrai finalmente ridurti nella tua camera, e farai il bilancio della tua giornata infelicemente appigionata al prossimo, dopo tanta disumana fatica di lettere, sedute, visite interessate, pratiche urgenti di cui non t’importa nulla, lavori d’occasione che hanno interrotto e rovinato il tuo proprio caro superiore lavoro, tu non sentirai nemmen più la compiacenza del bene che potrai aver fatto, dei servigi che avrai resi; non proverai altro che lo scoramento dall’attività sprecata e del tempo perso, insieme col tedio della tua vita, peggiore d’ogni più desolata stanchezza. Questo è il premio ordinario della cortesia.

Stolta virtù, direbbe il Bruto del Leopardi, alla quale si volge a tergo il pentimento: vano anch’esso, perché natura non si può scacciare. Nel folto della società cupida e feroce, in mezzo all’esasperazione di tutti gli egoismi, vivere da animai grazioso e benigno è debolezza, e non si può fare che gli altri non ne abusino. Bisogna dunque saper moderare severamente le proprie virtù, se sono a dirittura inguaribili, o almeno evitare che riescano troppo palesi, altrimenti non si può sfuggire al giusto castigo che colpisce chi non sa vivere secondo lo spirito dell’età sua. Le belle maniere signorili dei tempi andati sono oramai un anacronismo. Conviene farne quell’uso che si fa della marsina e delle cravatte bianche: tenerle per andare In società, quando si vuole ricrearsi in ozio ameno. Ma per l’uso corrente, lungo la giornata laboriosa, giacchetta!

  • di Dino Mantovani, “La cortesia”, ne “Il Corriere della Sera”, 4 maggio 1910 (anche in Dino Mantovani, Pagine d’arte e di vita, raccolte a cura Luigi Piccioni, Torino, Sten, 1915)