La corsa all’arte dopo la guerra

Parlano

Mostre, vendite, aste, di arte antica, di arte moderna, di arte avvenire, di pitture, di sculture, di stampe, di disegni, e di tutto quel che ad essi assomiglia. Io compro, tu vendi, io rivendo, tu ricompri. Banchieri, industriali, commercianti, medici, giornalisti, deputati, generali, sacerdoti, attori, cantanti: tutti oggi sono amatori d’arte, intenditori d’arte, raccoglitori d’arte. Chi non possiede ormai in Italia un quadro da diecimila lire in su? Chi non ha oggi da consigliarci la compera di un quadro o di un dipinto che vale, di certo, centomila lire, almeno? C’è un giorno, c’è un giornale in cui non ci si inviti a una vendita o a un’esposizione d’arte? Tra gli stessi pittori e scultori molti non si contentano di dipingere e di scolpire, ma raccolgono anch’essi pitture e sculture altrui, antiche e vecchie, perché le amano e anche perché, se capita, sono pronti, lacrimando, a rivenderle.

I restauratori sono soffocati dal lavoro. I clienti fanno coda davanti ai loro studi, tenendo sotto il braccio i propri tesori ravvolti in un cencio di damasco, supplicando quei maghi di mutarli subito con la loro alchimia in oro di zecca, abbagliante. Da Giotto a Tito, tutti i pittori, nel mondo alla moda, sono più nominati dei cavalli da corsa. In borsa si offrono ad alta voce le Ilva e le Fiat; sottovoce, ma con la stessa passione, i Tintoretto e i Cremona. Nei consigli di amministrazione si discute di scioperi e di bilanci ma, alla prima pausa, mentre il segretario stende il verbale, si parla di dipinti e di arazzi. Anzi, i magnati dell’industria, da Torino a Genova, da Milano a Roma, non comprano più un quadro, due quadri, tre quadri: comprano le collezioni intere, come si dice, in blocco, sculture di scavo, arazzi, mobili, pitture, bronzi, tappeti, vetri, ceramiche e porcellane. Gli antiquari magni ai nuovi grandi clienti italiani offrono musei o gallerie, belli e fatti, col catalogo stampato.

Errori? Inganni? Disinganni? Non c’è da indietreggiare per tanto poco. L’animo è ancora di guerra: un errore vale sempre quel che costa, perché più è costato meglio ha ammaestrato; e solo errando s’impara.

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L'anima semplicetta, che sa nulla,  
Di picciol bene in pria sente sapore;  
Quivi s'inganna, e dietro ad esso corre... 

E poi, se non vi corre più lei, c’è sempre la speranza che a liberarvi dal peso dell’errore accorra qualcun altro, ancora imberbe. Una volta l’«amatore» gabbato era un po’ l’amante tradito: non se ne vantava. Tempi passati, svenevolezze romantiche. Del resto, ad evitare troppe di queste docce, c’è per tutti il perito, il segugio dal fiuto sottile.

Il Vibert nella Science de la peinture narra la storia autentica di uno sfortunato commesso viaggiatore in «articoli svizzeri» che, a Parigi, preso in affitto un appartamentuccio a caso sulla cui porta una gran targa d’ottone annunciava Expert, diventò senza volerlo, prima di pensare a schiodare la targa, un fortunato perito d’arte della cui capacità i molti clienti furono subito convintissimi, mentre egli se ne convinse un poco dopo loro.

Spesso, da noi, il perito d’arte è un amico di casa che ha tempo da perdere: o da guadagnare. Spesso è un avvocato che per la sua professione può ficcare il naso da per tutto e del quale s’è cominciato a direi «che ha molto gusto». Spesso è un artista perché, per i collezionisti neofiti, l’idea che chi fa dell’arte debba intendersi di ogni arte, dall’etrusca alla giapponese, è inconfutabile: essi immaginano gli artisti raggruppati in una specie di corporazione sindacale attraverso tutti i secoli ed emisferi.

Talvolta il consigliere è una signora intellettuale, in bisogno, perché per gli uomini seri l’arte è una cosa gentile fragile e frivola, insomma femminile come nel vocabolario. Una di queste peritissime l’anno scorso fece comprare a un signore che «è nel cuoio», che cioè commercia o ha commerciato in corami, il ritratto di un papa, dipinto (si scusi l’ardire) da Tiziano: diecimila lire: un terno al lotto, anzi una cinquina. Il signore se ne vantò con troppa gente. Qualcuno gli disse di essere più cauto. Fu chiamato un ispettore alle Regie Gallerie, dal quale ho l’aneddoto; e questi, senza osar di gridare che il dipinto non valeva la sua tela, si permise di osservare che quella era visibilmente la copia di un notissimo ritratto di Clemente nono Rospigliosi e che Clemente nono era salito al papato novantun anni dopo la morte di Tiziano. La consigliera, presente, ribatté impavida: — E chi le dice che tra i tanti papi vissuti al tempo di Tiziano uno non assomigliasse a questo suo Clemente nono?

Ma gli aneddoti corrono a dozzine fra studi e botteghe. Chi può riscontrarne la verità? Alcuni sono omerici. C’è quello dei due, diciamo, collezionisti, di età già matura e per questo impazienti, entrati da un rinomato e fastoso antiquario romano recando in mano una lista: — Botticelli, Raffaello, Michelangelo, Tintoretto, Tiziano ecc., — e chiedendo un quadro per ogni nome. C’è l’aneddoto di un Sant’Antonio del Guercino, tutto impeciato di vernici, portato dall’amatore beato al restauratore perché glielo lavasse e rinfrescasse: ed esplorandone il fondo, il restauratore allibito ha visto sotto il Sant’Antonio apparire un ritratto di Giuseppe Verdi.

Inezie. Gli errori della passione; gli incerti del mestiere; le ferite degli arditi. Aneddoti, ingenuità, di frodi siffatte se ne sono viste in ogni secolo: sotto Augusto già racconta Fedro che molti scultori trovavano più conveniente firmare i loro marmi col nome di Prassitele morto da più di tre secoli. Esse si moltiplicano, naturalmente, col moltiplicarsi delle occasioni di trarne profitto. Significano cioè che all’arte non corrono pochi raffinati ed esperti, ma, ormai, corre la folla per la quale altro è correre altro è arrivare. Sono insomma un segno di questa repentina diffusa passione per l’arte: che essa sia benedetta.

Oggi questa passione ha in Italia un carattere nuovo; si volge anche all’arte moderna, anche a quella contemporanea. Di raccoglitori dell’arte antica e di quella del Rinascimento ve n’erano anche prima della guerra, da noi; non a dozzine come ora in ogni città, ma molti. E se raccoglievano anche con la speranza di adunarsi in casa un tesoro che alla loro morte avrebbe raggiunto un prezzo due e tre volte più alto, ragionavano diritto perché per quell’arte c’è mercato aperto in tutto il mondo. Ma di quei tanti italiani che oggi comprano a migliaia e migliaia di lire quadri dipinti oggi o ieri o l’altro ieri, si può dire che lo facciano proprio con quella speranza di lucro? O se lo fanno, che abbiano, per vincere, un gioco facile? Tanto meglio se sarà così, ma finora è poco probabile che intorno all’arte nostra contemporanea, anche a quella davvero originale e invidiabile, si raccolga l’invidia degli amatori stranieri. Non che non lo meriti; ma il merito non basta, bisogna farlo valere. Chi pensa, chi provvede a far valere oltralpe e oltre mare l’arte nostra di oggi? Di fronte alla fama mondiale di un Segantini che del resto l’Austria proteggeva come suo suddito, si è visto quanto poco sia durato il buon successo di un Michetti o di un Morelli trenta o quarant’anni fa a Parigi. De Nittis e Boldini vi hanno avuto lunga fama e lunga moda perché hanno vissuto là, mezzo francesi: Joseph de Nittis, Jean Boldini. Il mercato dell’arte nostra, anche nella foga d’oggi, purtroppo, si ferma di botto al confine. Ma dentro ai confini è tutto in bollore. Conosco non mercanti ma collezionisti o mecenati che dir si voglia, i quali si accaparrano tutta la produzione di un artista. I successi di Tito e di Fragiacomo sono stati a Milano clamorosi. Nella flemmatica Firenze, il mese scorso, Plinio Nomellini esponeva sessanta dipinti: un privato glieli ha comprati tutti, in una bracciata.

Questo amoroso furore è, per gli artisti, un bene o un male? Domanda stolta, secondo gli uomini pratici. Ma c’è chi teme che l’arte decada e gli artisti si corrompano nel deliberato proposito o almeno nella tentazione di accontentare questi clienti, di prosternarsi al loro gusto e capriccio. Stendhal, parlando nientemeno che di Michelangelo alla Corte papale, ha scritto un capitolo Malheur des relations avec les princes. E i principi di oggi non sono precisamente Lorenzo il Magnifico, Giulio secondo, Leone decimo, Paolo terzo o Carlo quinto. Bisogna giudicare con rispettosa misura i committenti munifici, e anche gli artisti italiani rapiti in queste inaspettate beatitudini su dalle angustie in cui giacevano fino al 1915 senza altra speranza che la distratta benevolenza della lontana e squattrinata Minerva. Chi pensa alla povertà in cui fino alla morte si dibatterono, pur sorridendone talvolta con nobile rassegnazione, il Piccio, il Cremona, il Faruffini, il Fontanesi, il Fattori, non affermerà davvero che la smania dei ricchi oggi per l’arte sia un male per qualcuno. È un bene, sicuro, materiale e morale per gli artisti i quali trovano, nel mercato più vasto, il modo di liberarsi, se vogliono, dei capricci dei clienti. Fra qualche anno, se questo bene durerà, potremo, vedere se ha fiaccato gli artisti, e se questo infiacchimento sia stato proprio colpa dei mecenati. Tiziano restò Tiziano anche quando l’imperatore gli raccattava i pennelli, — se è vero che glieli abbia mai raccattati.

I criticoni affermano che i più di questi mecenati comprano arte per imboscare il loro troppo danaro, al riparo dalle artiglierie del fisco e dalle fucilate di una rivoluzione. I quadri e le sculture sarebbero insomma un surrogato delle perle e dei brillanti che si fanno rari. Ma è certo che non tutti i nuovi innamorati delle belle arti sono dei «nuovi ricchi». Andate a un’asta pubblica. Tra la folla dei compratori incontrerete, come ho detto, molti vecchi ricchi, se si può chiamarli così, e nobili e borghesi posati e piccoli commercianti e pensionati che di profitti di guerra hanno conosciuto solo le ferite dei loro figlioli o l’ansia della lunga attesa.

Se anche essi sperano, con queste compere, di difendere meglio il proprio danaro, e anche di aumentarlo, il vantaggio per l’arte italiana è lo stesso. Se antica, ne emigrerà meno di là dei monti e dei mari; se moderna, se ne avvantaggerà il benessere degli artisti e il buon nome di essa arte.

Sbagliano? Esagerano? Sperperano? Prima di tutto sono danari loro e, una volta tanto, non dello Stato. E poi date tempo al tempo. Dalla malattia della collezione, se è una malattia, non si guarisce. Questi raccoglitori italiani, passato il furore di oggi, resteranno sempre dei compratori, anche se più cauti e ponderati. Cercheranno di spendere meno: di spendere, cioè, poco per avere molto anche se adesso spendono molto per avere poco, — di buono. Diventeranno così degli intenditori, magari dei buongustai. Vigileranno sulle volubili correnti del gusto e della moda per prevederle. Cercheranno artisti obliati ed epoche trascurate per comprarne le pitture, i marmi, i bronzi, le terracotte, i mobili quando ancora sono fuori di vista e di gara. È noto a tutti il valentuomo milanese che cominciò vent’anni fa a comperare ritratti e teste del Ghislandi di Bergamo. Chi allora avesse cercato di raccogliere, per dire un esempio su cento, tele del Caravaggio o solo del Cerano, dello Strozzi, del Feti, dello Spagnolo, del Cavallino, oggi si troverebbe il capitale moltiplicato per dieci o per venti, giusto premio alla libertà e finezza del suo gusto. E che dire di quelli che in Francia trenta o quarant’anni fa ebbero fede in Degas, in Renoir, in Monet, in Cézanne? Ogni anno ora si vedono le loro raccolte disperse dagli eredi per somme di milioni, tanto che è stata invocata una legge per far partecipi di tanto lucro gli artisti superstiti o i loro orfani.

Certo, gli esploratori corrono più rischi di chi s’accontenta di passeggiare sul marciapiede davanti a casa. Ma se sono sinceri, audaci e costanti, sono quasi sempre alla fine ricompensati. Ho detto costanti perché in questo mondo di amatori, di studiosi, di mercanti e di mediatori d’arte, — specie che talvolta si confondono nelle stesse persone, — niente fa più pena degli eclettici i quali, dopo tutto, sono i dubbiosi e i paurosi, — curiosi solo dell’avventura, frivoli senza passione che corrono dietro a tutte le gonnelle, superstiziosi senza religione che si inginocchiano distratti davanti a tutti gli altari. Con essi, la giusta sorte è sempre crudele.

I collezionisti invece che lasciano ricordo di sé, che fanno opera utile a se stessi e alla cultura e all’arte, devono, dopo i giovanili errori, formarsi, come si suol dire, una famiglia, far convergere la loro curiosità e il loro amore sopra una data epoca d’arte, sopra una sola scuola di artisti, e di giorno in giorno sceverare nelle proprie raccolte il bello dal mediocre: rivelare insomma anche in questa nobile passione un carattere e una costanza, — e ricordarsi alla fine che ogni ricchezza, anche quella che uno ha accumulato con il proprio lavoro e difeso con il proprio senno, soldo a soldo, soltanto in parte è nostra e dei nostri figli, ma in parte è della comunità, perché senza la comunità non la si sarebbe accumulata. Verità elementare, tanto più vera quando si tratta di tesori e tesoretti d’arte perché nel corpo della patria l’arte è il volto.

Ora nelle nazioni dove la patria non è stata o non è solo una parola da comizio, dall’antica Roma alla nuova America, i musei e le gallerie dei Comuni e dello Stato si sono sempre arricchiti più che con le compere, con i doni dei cittadini. E questi doni sono finora troppo rari in Italia, in molte regioni d’Italia.

Se questa recentissima passione di tanti e tanti italiani per l’arte si risolverà, oggi o fra vent’anni, in molti doni alla città e alla nazione, ecco un’altra, buona ragione per incoraggiarla.

Finora…

di Ugo Ojetti, “La corsa all’arte”, giugno 1919; in Id., I nani tra le colonne, Milano, Treves, 1920 (con “soft” editing: per una lettura più scorrevole le grafie desuete presenti nel testo sono state riportate alle nostre convenzioni contemporanee — e.g. pei > per i; lagrimando > lacrimando; proprii > propri; -j > -i; … e così via).