LOU REED, IL ROCK…

di Alfredo Sgarlato – Mai come quest’anno il Tristo Mietitore si è abbattuto sul mondo del rock; una “caliata” direbbe un personaggio di Camilleri. E purtroppo l’ultimo nome in ordine di tempo è tra i più amati: Lou Reed. Se sia stato il più grande è impossibile stabilirlo e non ne vale nemmeno la pena. Certamente era nell’Olimpo dei giganti. Da ragazzo si sognava poeta, il suo mito il suo insegnante Delmore Schwartz, scrittore poco noto in Italia se non tra i fan del musicista.

Ma ha anche un altro talento Lou, scrivere canzoni, dapprima lo fa per i juke-box, poi quando incontra le persone giuste, John Cale, Sterling Morrison, Angus McLise, Moe Tucker, forma i Velvet Underground. Il loro primo disco entra nella leggenda per la copertina di Andy Warhol e perché, come dirà Brian Eno, all’uscita vendette poche centinaia di copie, ma tutti quelli che lo comprarono diventarono musicisti. Ma soprattutto è un disco perfetto: una serie di canzoni splendide, che partono dalla più classica base rock, pochi accordi, riff di chitarra, innestandovi le lezioni di tutto quanto stava nascendo intorno a loro, serialismo, minimalismo, free jazz, la distorsione dell’elettronica, le influenze orientali.

Se i Beatles avevano mostrato che col rock si può dire e fare tutto i Velvet lo fanno davvero. E poi i testi: nessuno si era così spinto oltre. La vita di Lou Reed non era certo quella di un’educanda, e nei suoi testi ne parla apertamente, droga, perversioni, prostituzione maschile. Ma conta come ne parla. Di una canzone come “Heroin” è giusto non condividere il contenuto, lo stesso Reed poi ne prenderà le distanze, ma non si può non rimanere incantati dalla bellezza dei versi. A proposito di Nobel per la letteratura a un cantautore…

La crudezza dei testi fece di Lou Reed uno dei bersagli preferiti degli accattoni del moralismo. La famiglia sottopose Lou ad una serie di elettroshock, per “guarirlo” dal suo stile di vita. Ne parlerà in una canzone, “Kill your sons”. Come sempre ciò che rimane è la musica. Lou Reed è uno di quei musicisti che i detrattori accusano di scrivere sempre la stessa canzone, come Paolo Conte. Forse è vero, ma l’ha scritta davvero bene.

Lou Reed ha tenuto in cinquant’anni di carriera uno standard qualitativo molto alto, nessun suo disco o quasi è da buttare, anche nei dischi più bistrattati dalla critica come “Sally can’t dance” c’è sempre qualche perla. Ha ispirato Iggy Pop, David Bowie e tutta la new wave. Ha collaborato con musicisti provenienti dal jazz e dall’avanguardia come Don Cherry, John Zorn e Laurie Anderson, che è anche stata sua moglie. Ha fatto scoprire al mondo il talento cristallino di Antony e ha regalato col suo interessamento un breve momento di celebrità al grande, misconosciuto, crooner Jimmy Scott. Una sua canzone racconta di come il rock’n’roll salvi la vita di una bambina triste. È la storia di tutti noi.

* il trend dei desideri: rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato

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1 Commento

  1. la lettura di questo articolo mi ha ricordato un fatto divertente. anni fa un amministratore locale scelse proprio kill your sons come musichetta per la segretria telefonica. un oppositore incontinente scrisse ai giornali per far notare che quell’amministratore aveva in segreteria una canzone intitolata “uccidi i toui figli” se avesse conosciuto la canzone e il suo significato si sarebbe evitato una figuraccia (ma io sospetto che a certi personaggi fare figuracce piace). non chidetemi però chi era il politico, l’ho proprio dimenticato! i politici passano, le canzoni restano

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