PAROLA DI CASSIOPEA – La gioia di vivere

di Cassiopea – Ci siamo presi qualche giorno di vacanza col mio più caro amico. Mi ha voluto portare in Francia, nei luoghi che lui ama tanto: Arles, Avignone, Aix en Provence… abbiamo parlato, riso, scherzato, parlato, pianto, parlato, dormito (io), parlato, mangiato (lui adora la cucina francese, io la detesto), parlato, parlato e ancora parlato. C’era un clima da “notte in gita scolastica”, erano anni che non ci parlavamo così. Sono usciti fuori i nostri rispettivi amori e dolori: la paura di diventare grandi, di ritrovarsi vecchi senza essere mai cresciuti, la paura delle responsabilità, delle scelte “giuste” (sempre giuste dico io, soprattutto quelle sbagliate!).

La paura di legarsi e rimanere imprigionati in un progetto che non evolve, la paura di non legarsi e rimanere soli per sempre: non vuoi nessuno e nessuno ti vuole. La paura di essere soli, soli per davvero, o, che è persino peggio, di essere soli con qualcuno accanto. La paura di invecchiare e di morire. La paura di avere figli, quindi di assumersi responsabilità un tantino maggiori che occuparsi di un cane, molti gatti, cocorite e altri adorabili animaletti, oltreché, in primis, ad avere cura di sé stessi.

Eravamo in un delizioso alberghetto in Provenza (quelli con gli scuri dipinti di blu, senza fessure, con i vasi di lavanda sulle finestre…), molto romantico. Intorno a noi campi gialli e cieli agitati. Mentre parlavamo accovacciati sui cuscini il vento ha rapito il tendone trascinandolo fuori come una vela nel cielo, anzi tendeva a strapparlo via da noi, dalla casa verso il cielo. E così ho pensato che mentre stavamo lì a disquisire amabilmente sulla vita un’altra me correva incontro al suo amore, allargava le braccia (e le gambe, senza ragionevolissimi contraccettivi) così, semplicemente, naturalmente, perché quella è la vita vera, quello è l’amore vero. È semplice. E ho continuato a pensarlo, commuovendomi, di fronte alle opere di Picasso, dove la gioia di vivere è una donna generosa con le tette grosse, Danae, Ishtar, Madre Terra (Dio è femmina?), che ci ama, mentre intorno a noi danzano bimbi-caprette felici di suonare il flauto.

Forse la felicità è semplice: è una capra gravida che ti guarda seducente offrendoti il suo sesso e non chiedendoti altro. È la vita, la vita vera, quella dei bambini che vengono al mondo e che crescono, dei vecchi che muoiono sereni nel proprio letto. La vita vissuta e non pensata mentre intanto il vento ce la agita e ce la porta via come la tenda e per ogni attimo di gioia l’attimo dopo è già perduto. La vita vera, quella che rimane, quella salita che prosegue attimo dopo attimo come i grani di un rosario: la vita della famiglia, delle generazioni.

Mi viene una gran voglia di correre dal mio amore, abbracciarlo e dirgli: facciamoci una foto, adesso, qui, in stazione, e attacchiamola al muro, in cornice, e sotto ci scriviamo: gli avi, gli antenati di una lunga dinastia. E poi facciamo quindici bambini, compriamo una cascina con le mucche e i cavalli, le capre, le galline e i conigli… e cresciamo lì i nostri figli mangiando macrobiotica e rastrellando, spaccando legna per l’inverno, e osservando la natura che cambia con le stagioni. Sono partita felice e questa idea mi ha cullata sorridente lungo il viaggio di ritorno. Ma sul viale della mia città, gli alberi erano fioriti e ho cominciato a starnutire, mi capita ogni dannata primavera, e i miei occhi gonfi hanno cominciato a lacrimare.

Arrivata a casa i cereali avevano fatto le farfalline che ora svolazzavano gioiose. Le stanze erano fredde perché la casa era stata disabitata per un po’, con un click ho acceso il riscaldamento e quindici minuti dopo era calda, ho acceso il PC, la TV e la lampada del soggiorno e tutto quanto funzionava a meraviglia! Ho benedetto la tecnologia e la mia vita, così stramba e così bella (anche se a volte, o spesso, fa così male). Mi sono spaparanzata sul divano e ho preso un libro a caso dallo scaffale, “Non ti muovere” di Margaret Mazzantini, del quale adoro questo passaggio: «mi sollevo, cerco i suoi occhi. E ora una sua mano si stacca da terra. Si avvicina al mio viso e lo carezza. E quando quella mano fredda, come la pietra dov’era posata, si ferma sulla mia guancia, io so che la amo. La amo […] come non ho mai amato nessuno. La amo come un mendicante, come un lupo, come un ramo di ortica. La amo come un taglio nel vetro. La amo perché non amo che lei, le sue ossa, il suo odore […] e voglio urlare a tutta quell’acqua che non ce la farà a portarmela via in uno di quei rigagnoli che corrono lungo il selciato deserto. Voglio stare con te».

Bacioni dalla Francia dalla vostra adorabile Cassiopea di quartiere!

* Parola di Cassiopea: la rubrica Corsara di Cassiopea

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