Belve e gladiatori nell’Anfiteatro romano di Albenga

di Francesca Giraldi – Sulla collina del Monte, praticamente all’inizio dell’attuale passeggiata della via Romana, in posizione dominante rispetto a quello che doveva essere, ed è tutt’ora, il centro urbano di Albenga, si trova l’anfiteatro romano, l’edificio adibito agli spettacoli, l’unico rinvenuto in tutta la Riviera di Ponente. In pochi lo hanno visto e ancora meno sono a conoscenza della sua esistenza, ma nonostante l’esiguità dei resti archeologici mantenutisi, è un monumento fondamentale nella ricostruzione topografica di Albingaunum.

La sua posizione decentrata è dovuta a ragioni pratiche e di sicurezza. La propaggine collinare, esposta ai venti provenienti dal mare, assicurava una leggera brezza costante, che avrebbe rinfrescato gli spettatori durante gli spettacoli, i quali potevano durare anche un’intera giornata. Sappiamo che in alcuni luoghi furono approntate delle coperture per ombreggiare gli spettatori, esemplare è il caso dell’Anfiteatro Flavio, meglio noto come Colosseo, dove operava la flotta di Miseno, incaricata di stendere la velatura che coprisse l’intera cavea. In Albenga non sappiamo se fosse in uso un sistema simile per mancanza di prove archeologiche. Per quanto concerne la sicurezza, a seguito dei duri scontri verificatisi nel 59 d.C. a Pompei durante uno spettacolo gladiatorio, venne istituita un’ordinanza che vietava la costruzione di anfiteatri vicino al centro abitato. Riflettendoci, anche oggi la prassi urbanistica evita che gli stadi di calcio, sport caratterizzato da tifoserie turbolente, siano costruiti vicino alla zona residenziale.

Oggi, dell’antico edificio, possiamo vedere solo la muratura esterna della cavea nord, quella interna che cingeva l’arena e l’accesso orientale all’area dello spettacolo, ovvero l’entrata dei gladiatori, con un piccolo ambiente quadrangolare che doveva essere utilizzato come stanza di servizio. Probabilmente essendo la porta situata ad est, era utilizzata come porta sanavivaria, cioè quella che potevano varcare in uscita i gladiatori vincitori del gioco, mentre quella posta ad occidente, e oggi non visibile, doveva svolgere la funzione di porta libitinaria, ovvero quella attraverso la quale era fatto uscire il corpo del gladiatore battuto o degli animali uccisi. Inoltre, un cinquantennio fa era ancora eretta una porzione delle mura meridionali – come testimonia una foto di archivio depositata presso la Soprintendenza dei Beni Archeologici della Liguria – ma a causa dei bombardamenti subiti dalla collina durante la guerra, oggi non è più rintracciabile.

Per la costruzione dell’anfiteatro venne spianata parte della collina, in modo da creare un’area pianeggiante, che avrebbe ospitato l’arena, cioè la zona centrale dove avveniva lo spettacolo. Intorno all’arena si sviluppava la cavea, la gradinata che ospitava gli spettatori. Per creare la superficie a gradoni si utilizzò una muratura a sacco, cioè con un terrapieno per il rialzo e due muri contenitivi, uno verso l’esterno e l’altro verso l’interno. La struttura era ulteriormente rinforzata da contrafforti esterni che limitavano lo scivolamento dell’elevato. Gli ingressi si aprivano, come già accennato, alle estremità dell’asse maggiore e furono realizzati lungo una strada secondaria della via Julia Augusta. Si suppone vi fosse anche un ingresso che permetteva di accedere al meniano, il corridoio che separava in due settori la cavea, uno superiore ed uno inferiore. Nonostante oramai sia visibile solo una ridotta porzione dell’anfiteatro, in origine la pianta dell’edificio doveva misurare 73m sul lato lungo e 52m su quello corto e poteva contenere qualche migliaio di spettatori.

L’intera muratura fu realizzata con una tecnica denominata petit appareil o opus vittatum, che prevede l’impiego di blocchetti parallelepipedi di pietre, disposti in filari orizzontali e fissati grazie alla malta. Tale tecnica, molto utilizzata nell’architettura romana, garantiva duttilità d’impiego, la ritroviamo infatti in molte grandi opere e in tutti i ponti romani presenti nel Savonese. La superficie, infine, doveva essere intonacata ed affrescata, come possiamo ancora osservare nella parete della cavea affacciata sull’arena, dove vi sono linee verticali rosse ed orizzontali nere, che dovrebbero rappresentare le transenne poste durante gli spettacoli a protezione degli spettatori.

Non vi sono dati archeologici certi che suggeriscano una datazione puntuale, ma il confronto con altri anfiteatri simili fa supporre che la struttura appartenga al II sec. d.C.

Non possediamo testimonianze dirette di quali spettacoli siano stati effettivamente rappresentati all’interno dell’arena ingauna, ma molto probabilmente, non si limitarono solo a giochi gladiatori e venationes, cacce ad animali feroci. È infatti accertato, in ambito provinciale, l’intercambiabilità tra la struttura del teatro, concepito per ospitare rappresentazioni teatrali, e l’anfiteatro, luogo strutturato per spettacoli più cruenti. È molto probabile quindi che l’anfiteatro di Albenga, generalmente sfruttato in occasione dei Saturnalia per gli spettacoli di lotta, fosse utilizzato in altri periodi per le rappresentazioni teatrali.

In conclusione sfatiamo due leggende legate ai giochi gladiatori che sono state diffuse da ricostruzioni molto scenografiche, ma poco veritiere, dei film storici. La prima leggenda è legata alla frase che direbbero i gladiatori entrati in arena, subito prima di dare inizio al combattimento: “Ave Caesare, morituri te salutant” cioè “Ave cesare, coloro che stanno per morire ti salutano”. In realtà ciò avvenne un’unica volta nella storia dei giochi, o così ci riferisce l’unica fonte che cita tale avvenimento, Svetonio. Sarebbe inoltre stata pronunciata da condannati a morte, e non da gladiatori, in occasione della naumachia, una simulazione di combattimento fra navi ottenuta allagando l’anfiteatro e portandovi dentro delle navi o delle barche, indetta dall’imperatore Claudio nel 52d.C.

La seconda inesattezza riguarda il pollice verso, cioè il gesto che avrebbe fatto la folla per chiedere la grazia o la condanna di un gladiatore. Per tradizione si ritiene che il pugno chiuso con il pollice rivolto verso l’alto significhi “vita”, mentre il pollice che punta a terra sia “morte”. In realtà, da quel che si può dedurre dagli scritti, il gesto per chiedere l’esecuzione del condannato era il pollice verso l’alto, che doveva richiamare lo sguainare della spada, ed invece il pugno chiuso, simbolicamente la spada nel fodero, era usato per la richiesta di grazia.

* Terre e Orizzonti: la rubrica Corsara di Francesca Giraldi

2 Commenti

  1. Articolo molto interessante. Belle anche le similitudini (sbancamento di colline e stadi fuori dai centri abitati) rispetto ai giorni nostri.

I commenti sono bloccati.