Il revival e l’eterno ritorno

Giorno infausto, o forse magnifico, quello in cui gli strateghi del marketing scoprirono che la nostalgia si vende. E che nostalgici non sono gli anziani ma anche i giovani.

di Alfredo Sgarlato – Quando il revival sia cominciato è difficile dirlo, forse è sempre esistito, d’altronde gli antichi parlavano di “eterno ritorno”, forse l’inizio del discorso che ci interessa è dato dal grandissimo e imprevisto successo del film “American Graffiti” di George Lucas, nel 1973. Il film, che racconta l’ultima notte da liceali di quattro amici per affrontare una dei più classici temi della cultura americana, la fine dell’innocenza, è vagamente ispirato da un telefilm più volte mandato in tv senza alcun riscontro col titolo “A new family in town” oppure “Love and happy days”, di cui manteneva uno dei protagonisti, Ron Howard. Dopo il successo di American Graffiti la serie Happy days, però incrociata con l’altro stracult dell’epoca “Easy Rider”, da cui prende un personaggio di motociclista, Fonzie (molto risciacquato rispetto ai veri bikers) potè partire ed avere il boom planetario di cui siamo tutti corresponsabili. E così negli anni ’70, molto creativi si, ma segnati dalla guerra in Vietnam per gli americani e dal terrorismo in Europa, si poteva fantasticare di un’età dell’oro non poi così lontana in cui il mondo era ancora innocente e noi bambini felici.

E così nel 1983, quando i giovani appassionati di musica faticavano ancora a digerire i nuovi suoni del punk e della new wave le riviste “di tendenza” vagheggiavano già una fantomatica neopsichedelia che sarebbe presto arrivata da oltreoceano. E quando pochi anni dopo anche per noi ventenni il rock era morto (ovvero il nostro gruppo preferito si era sciolto o, peggio, cominciava a diventare famoso) e ci tuffavamo nel mare magno dei gruppi degli anni ’60, così incompresi, così innocenti, già il noto critico Alberto Campo temeva, ascoltando alcuni gruppi nuovi, che fosse già in arrivo il revival degli anni ’70 “altrettanto acritico e superficiale”. Ben presto tornano i pantaloni a zampa d’elefante (musica e moda sono un binomio indissolubile), l’hard rock e la disco. Mentre osservo sconsolato il revival dei ’70 penso che il revival degli ’80 però non potrà arrivare mai: troppo brutta la moda, con quelle spallone squadrate delle giacche, troppo strana e datata la musica, con quei sintetizzatori che all’epoca erano futuristici e oggi antiquariato. E invece…

Nel 2002 Mtv comincia a passare dei gruppi nuovi. Non credo alle mie orecchie: è la musica dei miei tempi. Non so dire fino a che punto questi gruppi vendono e se i ragazzi ricercano gli originali come noi cercavamo le rarità dei ’60. Però punk e dark e new romantic (bande dell’epoca) rinascono mescolati tra gli emo. Gli esperti di tendenze si interrogano se dopo quello degli anni ’80 ci sarà il revival degli anni ’90 e così via per sempre, o se, essendo stati gli ’80 gli ultimi anni con una fisionomia particolare, si ricomincerà ciclicamente coi ’50. Fatto è che la nostalgia paga e si abbassa sempre più di età: ai concerti delle tribute band sono i ventenni e non i quarantenni a sapere a memoria le canzoni di Abba e Duran Duran.

Per adesso pare che gli anni ’90 siano ancora troppo vicini e il trend che fa impazzire le riviste più modaiole è quello che hanno chiamato Hypnagogic pop ovvero la memoria della memoria ovvero il revival del peggio degli anni ’80… poi, come sempre, il futuro non è scritto e lo scopriremo solo ascoltando.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato

1 Commento

  1. Bellissimo e lucido articolo come sempre.

    Al di là del punto di vista artistico e culturale, lo stesso processo mi pare possa essere descritto da quello sociale ed economico.
    In fondo la classe sociale dei “giovani” nasce intorno agli stessi anni ’50- ’60 e, non a caso, anche e soprattutto quale targhet comerciale individuato dalla rampante industra dello star system.
    Quelle stesse persone che si identificarono in modelli sociali strettamente legati ad un epoca, gli anni ’60 -’70, che corrispose all’età della loro adolescenza (l’età della seconda individuaizone sociale), in seguito invecchiati non poterono che mantenresi rivolti a quegli anni per garantirsi una certa stabilità psicologica nel proprio senso di identità.
    Anche perchè nello specifico culturale dell’epoca attuale, la gioventù, la novità, l’inedito, il progressivo, continuano al momento ad essere associati invariabilmente al bello, al buono, al giusto, con una rimozione del vecchio e del conoosciuto che meriterebbe ben altra analisi (vedasi per es. l’ultimo lavoro di Galimberti).
    A tale bisogno non potè che corrispondere l’offerta comerciale del revival che, proprio fra i quarantenni odierni (figli del baby boom e fino a pochi anni fa relativamente benestanti sul piano economico e disponibili ad acquistare prodotti culturali) sta attarversando la sua fase parossistica.
    Nell’articolo è particolarmete intrigante la domanda sul futuro del revival.
    Quale splendido ossimoro!
    Difficile dirlo, ma è possibile osservare che i “giovani” d’oggi, a differenza dei “giovani” di un tempo, vivono una condizione differente.
    A loro infatti è toccato il singolare destino di dover contendere ai genitori un identità, per così dire usurpata, non più disponibile quale supporto al processo di differenziazione generazionale.
    Non a caso in giro si vedono sempre più cinquanta-sessantenni mai rassegnati a dismettere jeans sdruciti, miniginne, t-shirt e quant’altro faccia gggiovane, a fronte di ventenni alla disperata ricerca di uno stile che non li faccia assomigliare troppo nè ai padri, ma neppure ai nonni!
    D’altra parte mai come ora gli stili di vita sono mediati e (ri)creati dal complesso industrale mediatico-culturale-commerciale, che a questo punto penso trovi comodo ed economica riciclare alcuni stilemi anni ’80 e poi ’90 e poi ’00 facendoli passare per assolutamente nuovi ed inediti. Vedi “fenomeno” emo.
    A meno che qualcuno prima o poi non si accorga del trucco….

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