di Francesca Giraldi – Negli ultimi tempi si sono riscoperte le terme e un po’ ovunque ne spuntano. Non importa se all’interno si faccia uso di acque benefiche o di semplicissima acqua senza alcuna proprietà curativa: ci si va per ritrovare un po’ se stessi e dedicarsi alla cura del corpo. Niente di nuovo sotto il sole allora, perché nonostante oggi Albenga non sia dotata di tali luoghi di relax, un tempo poteva vantarne uno di discreto pregio, nonostante fosse una realtà periferica e provinciale.
Dall’epoca augustea in poi (I sec. a.C. – I sec. d.C.), i bagni pubblici erano generalmente caratterizzati dal libero accesso, solo raramente abbiamo testimonianza di un ingresso a pagamento ma, anche nei pochi casi che conosciamo, il corrispettivo da versare era veramente esiguo, ciò le rendeva alla portata di tutti. Proprio questa grande liberalità nell’accesso a tali luoghi, spinse la nobiltà, più abbiente e di lignaggio più elevato, a crearsi delle terme private, collegate alla propria residenza, della quali però non si ha traccia in Albenga. L’accesso alle terme era garantito sia a uomini sia a donne, ovviamente in orari differenti.
Oltre ad essere un luogo per la cura del corpo e del fisico, era anche adibito alla socializzazione e alla frequentazione della comunità. Rare volte, solo per i complessi maggiori, vi era affiancata addirittura una o più biblioteche, con il preciso scopo di permettere l’otium letterario.
Le terme di Albenga erano nell’immediato suburbio, di fronte alla porta nord della cinta muraria, nell’attuale alveo del Fiume Centa, a poca distanza da quello che si ritiene fosse il porto di Albenga. L’ingresso era evidenziato da quattro gradini in marmo anteposti ad una zona porticata che costeggiava un ampio piazzale pavimentato a cocciopesto. Il cocciopesto era una mistura di malta e frammenti laterizi ben frantumati, maggiormente noto con il nome di malta idraulica, che ben si adattava a pavimentazioni esterne o a rivestire le vasche, proprio per le sue proprietà impermeabilizzanti.
Questo spazio aperto costituiva la palestra, luogo dove si praticavano gli esercizi ginnici, tenuti in alta considerazione all’epoca romana, come ci testimonia anche Giovenale con il suo mantra “mens sana in corpore sano” (una mente sana in un corpo sano). Terminati gli esercizi atletici ci si poteva dedicare al nuoto, in un’ampia vasca (natatio) di circa 12m, nella quale ci si immergeva grazie a degli scalini semicircolari posti nelle absidi dei lati brevi della piscina.
Al termine delle attività fisiche, ci si spostava all’interno della struttura per
Secondo il percorso romano, dagli ambienti maggiormente freddi, adatti a riattivare la circolazione sanguigna, si doveva gradualmente arrivare a quelli riscaldati. Dalla stanza delle abluzioni fredde si passava pertanto agli ambienti riscaldati, un probabile tepidarium e un calidarium. Questi ambienti sono archeologicamente abbastanza facili da riconoscere, perché sono generalmente caratterizzati dalla presenza di suspensurae. Per permettere all’ambiente di scaldarsi, venivano installati sotto al pavimento dei filari di pilastrini in mattoni che sollevavano il piano di calpestio. Si creava così un’intercapedine che permetteva all’aria calda di circolare e scaldare l’ambiente superiore. Tale aria calda seguiva una circolazione indotta che aveva origine da forni a legna chiamati prefurnia. In alcuni casi il riscaldamento era potenziato anche dalla presenza di piccole canalette all’interno delle pareti. Le stanze erano adornate da inserti in marmo e da mosaici bicolori, neri e bianchi.
Una stanza di particolare interesse, purtroppo studiata solo parzialmente perché in parte occultata dai moderni elevati, è il probabile calidarium. In questo ambiente, contiguo ad un primo sempre riscaldato, le suspensurae sono rafforzate da muretti veri e propri, adatti a sostenere grandi pesi. È perciò verosimile che ai lati di questo ambiente, dove si concentrano appunto le murature, vi fossero delle vasche ad acqua calda per le immersioni. È piuttosto frequente, in presenza di vasche riscaldate, l’impiego di lastre metalliche all’interno delle murature che accelerino il riscaldamento dell’acqua.
Finito il percorso, ci si poteva concedere un ulteriore momento di amenità colloquiando e passeggiando nell’area limitrofa all’edificio, probabilmente adibita a giardino.
La datazione dell’edificio, basata sulla tecnica muraria e sullo stile del mosaico, ci portano a supporre che la struttura risalga alla fine del II sec. d.C. – inizi del
Non sono chiari, da un punto di vista archeologico, i motivi che spinsero alla dismissione dei bagni e alla successiva costruzione della chiesa di San Calocero, ma non potendo notare segni tangibili di distruzione violenta, non resta che supporre un progressivo smantellamento dell’edificio per reimpiegare le parti in altre strutture. Probabilmente in ciò giocò un ruolo importante la crisi dell’Impero Romano e il ritorno a un regime di vita più volto alla sussistenza che al benessere.
Oggi i resti delle terme pubbliche romane, parzialmente celate dalla successiva chiesa e dalle costruzioni moderne, offrono ricovero alle paperelle del fiume, creando uno scorcio sicuramente suggestivo, che lascia però nell’animo un vago senso di abbandono e incuria. Almeno un cartello esplicativo, in onore dei tempi d’oro della struttura, si potrebbe anche installare…
* Terre e Orizzonti: la rubrica Corsara di Francesca Giraldi