FELLINESQUE!

di Alfredo Sgarlato – La notte di Halloween di vent’anni fa il destino giocava un brutto scherzetto al mondo del cinema: si portava via Federico Fellini, uno dei due più grandi registi nella storia della settima arte (l’altro, lo diciamo subito, è Stanley Kubrick). Da qualche anno era malato e non lavorava più, perché anziano, e perché si era contrapposto frontalmente contro il trionfante potere televisivo, lanciando campagne contro le interruzioni pubblicitarie nei film e criticando aspramente la tv nei suoi ultimi, peraltro non del tutto riusciti, film: il troppo nostalgico “Ginger e Fred” e gli ondivaghi “Intervista” e “La voce della luna”, che pur contiene momenti straordinari e profetici, come la sagra dello gnocco e lo straordinario prefetto paranoico interpretato da Paolo Villaggio.

Già, come tutti i geni Fellini era profetico, pensiamo al suo ultimo capolavoro, il sontuoso “E la nave va”, che termina col presagio di guerre balcaniche, come effettivamente avvenne. Eppure non tutti ne comprendevano il genio. Lo relegavano a cantore dell’Italietta e della tettona o, peggio, a furbastro cuciniere da Oscar. Ma in quell’Italietta Fellini era cresciuto. Mi torna in mente un catechismo fascista visto in una mostra di memorabilia, in cui si racconta questa edificante favoletta: due bambini discutono su cosa significhi la M che portano sul petto, se Mussolini o Mamma. Tutt’e due, risponde la maestra, perché il duce è come una mamma. Ecco all’opera i due fondamenti di ogni potere assoluto: il disprezzo dell’intelligenza e il kitsch (vedi sull’argomento le illuminanti pagine di Milan Kundera ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere”). Fellini ne era ben consapevole, e tutto questo lo mostra in “Amarcord”, il film più serenamente antifascista mai fatto, insieme a “Vincere” di Bellocchio.

E nemmeno questa volta fu capito, Fellini, come il suo alter ego Flaiano, era un uomo politicamente non classificabile, detestato dai marxisti che non capivano perché parlasse di amore, sesso, memoria, creatività, umanità, insomma quelli che consideravano egocentrismi borghesi invece di incitare alla rivoluzione, mentre conservatori e clericali ne disprezzavano la libertà di pensiero e di forma, la visione gioiosa e panteista della vita.

Ma perché Fellini e Kubrick sono i due registi più grandi? Perché interpretano, portandole all’estremo della complessità e della riconoscibilità dello stile, le due possibili personalità artistiche e conoscitive umane: razionale, apollineo, neoclassico, illuminista, freudiano Kubrick; fantastico, dionisiaco, barocco, caotico, junghiano Fellini. Prendiamo lo loro interpretazione del’700: Kubrick in “Barry Lindon” lo ricostruisce nei dettagli, copiando i quadri dell’epoca al punto di cercare attori sosia, usando candele per l’illuminazione. Fellini, per “Casanova”, il ‘700 lo reinventa completamente. I due si stimavano molto, si può dire che fossero amici, per come possono essere amici due che non uscivano di casa se non per andare sul set. Ambedue erano insonni e quando Kubrick aveva un dubbio telefonava a Fellini (o a Spielberg) per risolverlo.

Se Kubrick conosceva la psicoanalisi perché leggeva migliaia di libri, Fellini ne aveva avuto l’esperienza diretta, andando in analisi da uno dei più bizzarri e originali tra gli allievi di Jung, Ernst Bernhard. Da questo punto di vista due film sono centrali nel percorso felliniano: “8 e 1/2” e “Giulietta degli spiriti”. In queste due opere (“Giulietta..” è la perfetta messa in scena in chiave fantastica di una seduta psicoanalitica) viene mostrata quella che Jung chiama la “funzione riflessiva”, ovvero la maturazione della psiche attraverso l’incontro con le figure archetipe sedimentate nell’inconscio. Parentesi: in “8 e 1/2” Marcello/Federico pone a un cardinale la domanda da un milione di dollari, e quello non sa rispondere. Mentre Giulietta avrà la risposta da una psicoterapeuta. A nome di tutta la categoria, sentitamente ringrazio.

Ma aldilà di tutte le considerazioni storiche, critiche e psicoanalitiche una cosa rimane: la Bellezza. Il cinema di Fellini, come e più di quello di pochi altri, è bellissimo da vedere. Ed ha uno stile unico, riconoscibile da una singola inquadratura, al punto di diventare un aggettivo: Felliniano. O come dicono in Francia, Fellinesque.

* il trend dei desideri: rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato