Ma cosa c’è sotto al ‘Melogno’?

di Laura Sergi – Quale emozione per la sottoscritta, in una giornata già triste per aver accompagnato nell’ultimo viaggio un amico, leggere sulla ‘Stampa’ di ieri, venerdì 23 agosto 2013, un servizio di Pier Paolo Cervone dal titolo: ‘I segreti del bunker nei boschi del Melogno / Speleologi savonesi in un luogo avvolto dal mistero per 50 anni’.

Vale la pena, allora, andare a rivedere anche un vecchio scritto, pubblicato sul quindicinale ‘Il Ponente’, del 20 settembre 2008, che oggi non esce più. Un articolo finito nello stesso ‘paniere’ in cui erano finiti i sospetti e le mille domande della popolazione locale, sopravvissuta alla guerra, nonché i loro ricordi. Tutto questo bocciato senza sosta ripetutamente negli anni, facendo dichiarare a chi di dovere che si trattava di fantasie, fantascienza, deliri.

Ecco il testo dell’articolo così come pubblicato, io non aggiungo più nulla.

Ma cosa c’è sotto al ‘Melogno’? – Fulvio era un ex partigiano, una persona già avanti con gli anni con la quale si andava in gruppo, circa una volta l’anno, a fare il ‘giro dei cippi’: su ogni cippo dedicato ai combattenti, caduti nell’ultima guerra, portavamo una piantina di fiori.
Qualche volta si era un po’ di più, qualche anno in pochi, una volta anche noi tre soli (lui e – ultimi aggregati al gruppo – io e mio marito), e di questa gita conservo una foto mentre sono in groppa alla sua moto, e sembra che la stia pilotando (io che una volta sono caduta da un piccolo Gilera e non ho più voluto salirci).
Quell’anno di cui vado a raccontare eravamo quattro: dopo tante defezioni (non sempre era facile mettere un gruppo parecchio numeroso d’accordo sulla giornata), eravamo riusciti a riempire solo la nostra auto. Guidava Giorgio, Fulvio stava al suo fianco, Bruno vicino a me.
Non ricordo nemmeno la conversazione di quell’inizio di giornata; sicuramente ci saranno stati momenti lieti e qualche dispiacere, qualche risata e qualche ‘peccato’; sicuramente anche quel giorno Fulvio, appena salito in auto, avrà ricordato da quanti anni faceva quel giro, spesso anche da solo, se c’era troppo da attendere per riunire tutto il gruppo.
Poi, però, arrivammo al Melogno, sulle alture di Finale Ligure (poco più di 1000 metri s.l.m.).
Oltrepassando con l’auto il Forte Centrale, da qui in poi il ricordo diventa nitido. E sorprendente.
In questi giorni, dopo averci tanto pensato, ho deciso di mettere nero su bianco.
È passato molto tempo da allora, e ricordo solo il succo, i concetti base. Chissà se Fulvio avrebbe accettato un’intervista, o di rendere pubblici questi particolari. Chissà come mai, però, dopo tanti anni che facevamo quel giro, solo quella volta ricordò il ‘suo’ episodio.
Certamente la paura di non essere creduto aveva avuto un ruolo determinante.
‘Sapete una volta cosa mi è successo? Era finita la guerra da poco e incontro un amico dei tempi della Resistenza (uno che aveva fatto parte di una missione militare alleata, paracadutato da noi), in un paesino sotto. Lui un po’ più giovane di me, in divisa miliare americana. Quattro parole, una birra… vieni con me che ti porto in un posto che non hai mai visto, che ti stupirà.
Ci avviciniamo alla sua motoretta e mi chiede: Ti spiace se ti bendo? Perché altrimenti non posso portarti.
Figurati, fai pure (quante scene, pensavo, mentre mi metteva un fazzoletto sugli occhi). Dopo più o meno un quarto d’ora-venti minuti (in cui io pensavo: mah, dove mi sta portando?), ferma la sua motoretta.
Non nego che cominciavo ad avere, non paura, ma un po’ di titubanza, ecco…
Scende, mi toglie la benda (io mi guardo in giro e riconosco vagamente i posti del Melogno).
La motoretta la lascia lì, in mezzo agli alberi, sulla sinistra della strada. Io gli dico: ma non hai paura che te la portino via? No, figurati. Continuo a non capire.
Vieni, passiamo di qui che si fa prima.
Facciamo un pezzo a piedi, dalla parte della collinetta. Lui cerca qualcosa, io continuo a non capire. Da chissà dove (ma dov’era nascosto?) sbuca un uomo in tenuta mimetica e mitra. Poche parole in inglese e l’uomo si allontana.
All’improvviso lo trova, quel qualcosa: è come un ramo d’albero (io l’avrei preso per un ramo d’albero); invece aziona un portoncino ricoperto di muschio e di verde che mi lascia di stucco, tanto era inimmaginabile che quello fosse un ingresso.
Lui entra piegandosi con la testa e dicendomi di fare altrettanto ed io lo seguo quasi con incredulità.
Lui tira fuori di tasca una pila e facciamo tanti passi in un cunicolo stretto e piccolo; un americano sbuca fuori da chissà dove e ci investe con la sua, di pila (ci sarà stata un’apertura più ampia che io non avevo notato, lì era molto scuro, con poche luci nel soffitto che rischiaravano solo un poco).
Il mio amico risponde con molta tranquillità, dice qualcosa ancora in inglese e traduce per me con termini tipo: ‘È tutto a posto’.
L’altro ci lascia passare e noi proseguiamo a camminare nel cunicolo, che ora si fa più agevole. Mezz’ora, forse di più. Poi arriviamo a una porta, al di là si sentono suoni, rumori.
Lui la apre e… una città! Una città sotterranea!
Bar, ristorante, negozi… una città!, capite?, illuminata da grossi lampioni, come se fosse sera sotto i portici di una qualsiasi città.
Incroci stradali, marciapiedi, americani in divisa, anche donne, che passeggiano tranquillamente, motorette e camioncini sulle strade.
Nel dopoguerra si parlava spesso di una base militare americana al Melogno (chi diceva di intercettazione radar e chi addirittura di presenze missilistiche), ma mai mi sarei aspettato una cosa del genere.
L’amico mi porta nel suo dormitorio, una casermetta dove ci saranno stati una dozzina di letti e dove, su una branda vicino alla sua, c’era un commilitone che stava leggendo un giornaletto e che si è alzato poco dopo i saluti per lasciarci parlare tranquilli.
Abbiamo parlato circa una mezz’ora, io gli facevo qualche domanda e lui mi rispondeva che lì si trovava bene, che ora che la guerra era finita avevano qualche permesso per uscire fuori, l’importante era che non si facessero notare troppo, e che presto sarebbe tornato a casa in America, dove aveva moglie.
Passò di corsa il tempo che avevamo a disposizione, poi mi disse che veniva tardi e che mi avrebbe riaccompagnato giù in paese, dove ci eravamo incontrati. Usciamo e ritorniamo nei pressi del cunicolo.
Fuori lui prende una motoretta parcheggiata lì accanto; no, non è la mia, mi risponde, ma so di chi è, tanto la riporto quasi subito.
Ritornare al punto di partenza ora è veloce.
A me sembra di sognare. Nessuno ci ferma questa volta (ovviamente). Dal portoncino che dà sulla strada però sono appena entrati altri due soldati e lui ne approfitta per dir loro di usare pure la motoretta e dà loro indicazioni di dove l’ha presa; chiede anche ad uno dei due di tornare a prenderlo dopo una ventina di minuti. Lui adesso non tira fuori alcuna benda, anche perché è abbastanza scuro. Nonostante ciò non ho dubbio alcuno: siamo al Melogno. Quindi ci avviamo verso la sua moto e io, stavolta, non mi stupisco di ritrovarla ancora lì’.
Non crediate che Fulvio sia riuscito a fare questo racconto senza fermarsi e rispondere alle nostre domande. Una volta compresa la portata delle sue affermazioni…: ‘Ma stai scherzando?’, ‘Ma sta scherzando?’, chiedevamo all’amico che lo conosceva da più lunga data. Ma l’amico come noi era allibito, e si beveva ogni parola del racconto. Intanto Fulvio continuava: ‘E mi ha riportato al bar. Ci siamo salutati affettuosamente e mi ha dato anche qualche indicazione per andarlo a trovare in America. Quando mi ritrovato da solo mi sono dato anche qualche pizzicotto per rendermi conto di non aver sognato. Ma era vero, era proprio tutto vero. Ci pensai la sera, ci pensai la notte. Il pomeriggio dopo ritorno al Melogno, da solo. Chissà cosa pensavo di fare, di dire, di chiedere. Se si mette male faccio chiamare il mio amico, ma perché si dovrebbe mettere male?
Ero completamente in balia di quanto avevo visto il giorno prima, in quel posto ci dovevo assolutamente ritornare. Ero pieno di domande, di interrogativi… Ho rifatto il percorso del giorno prima con il mio mezzo di locomozione, l’ho parcheggiato accanto ad un albero, ho fatto quei passi a piedi e… proprio vicino a dove eravamo entrati 24 ore prima, io ‘vedo’ un ramo come quello del giorno prima, cerco di muoverlo ma… è un ramo!, è proprio un ramo!… Mi sarò sbagliato, penso. Rifaccio il percorso a piedi, eppure la posizione è proprio qui, proviamo un po’ più avanti, un po’ più indietro, mi fermo, ricomincio… ricomincio… ricomincio…
Quanti rami ho toccato quel giorno. Avrò passato due ore a spostare rami, che se qualcuno passava mi prendeva per scemo. Io l’entrata non l’ho più trovata, nessuno è uscito, nessuno è entrato, nessuno si è avvicinato. Passava qualche motoretta ma non si fermava nessuno. Mi sono anche nascosto dietro un albero pensando che, non vedendomi, qualcuno avrebbe potuto approfittare del cunicolo. Quando è venuto buio sono andato via dalla disperazione.
Eppure l’ho vista: una città!, una città sotterranea!’.
Fulvio è mancato circa due anni or sono, aveva un tumore alla gola (N.d.Rr.: quindi ad oggi – 2013 – sono passati circa sette anni). Non mi può più aiutare. Ho fatto fatica a ricostruire la storia, perché alcuni particolari non li ricordo bene. Quello che ho scritto l’ho messo su a fatica, confrontando i miei ricordi con quelli di mio marito. Su alcuni punti ho dei dubbi, come sul suo mezzo di locomozione il giorno dopo al Melogno (l’aveva legato?, l’aveva lasciato sciolto?), di cosa parlò con l’amico nel dormitorio di preciso? (mi sembra di ricordare qualche domanda più diretta e conseguente spiegazione sul fatto che attorno nessuno dovesse minimamente immaginare che ci fosse una base segreta). Ma tutto il resto, che è poi quello che ho scritto, è tutto vero.
Voi potete pensare che io mi sia inventata tutto. Certo, però, è che a tanti anni di distanza al Melogno ci sono ancora cartelli di zona militare e conseguenti divieti, il telefonino lungo il percorso stradale non ha campo (non succede solo lì, d’accordo, ma ‘lì succede’), e poi… voi potete anche non crederci, ma io l’ho vissuto dall’inizio alla fine questo racconto, e io… sì, io ci credo. (Laura Sergi, ‘Il Ponente’, 20 settembre 2008)