Intervista a Max Manfredi, ospite del Festival dell’Inquietudine di Finale

di Alfredo Sgarlato – L’originale Festival finalese dedicate alla sfuggente musa che dona irrequietezza ma anche creatività sceglie il genovese Max Manfredi come musicista inquieto. Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo prima del concerto che si è tenuto all’Auditorium di Santa Caterina di Finalborgo venerdì 31 scorso.

Albenga Corsara: vorrei che ci presentasse questo nuovo progetto, in cui suona anche con musicisti provenienti dal mondo del progressive

Max Manfredi: dal mondo del progressive proviene la tastierista Elisa Montaldo, poi c’è Matteo Nahum, che non è nuovo a suonare con me, che bazzica anche lui queste esperienze musicali; sta montando la batteria Marco Frattini, musicalmente onnivoro, che invece fa veramente di tutto, eclettico al massimo grado, poi c’è il bassista Daniele Pinceti, molto eclettico anche lui. Questo si, è un quintetto che ci siamo inventati proprio in occasione di questa Festa dell’Inquietudine, con cui comunque lavoriamo, soprattutto in trio con Matteo ed Elisa con cui siamo già ben rodati.

A.C: questo nome strano, Dremong, cosa significa?

M.M: Dremong è un gioco. Il Dremong, o Tchemong, è un orso che si trova nel Tibet, ma è un orso strano, un po’ particolare. Intanto è brutto; non ha la bellezza ursina, e poi è particolarmente cattivo, tanto che si pensa che abbia dato origine alla leggenda dello Yeti. Allora, boh, mi piaceva questa immagine un po’ ambigua, l’orso ha anche un immagine graziosa, piace ai bambini, ma può essere anche cattivo; allora penso che anche le canzoni possono essere così, essere dei peluche, possano servire per consolarti, ma possano anche servire per tirare dei sassi.

A.C: c’è una sua canzone che mi sembra particolarmente attuale, “L’ora del dilettante”

M.M: si, è quasi vecchia, perché l’ho scritta da tempo, ma è sempre attuale e lo sarà finché la società sarà così, sarà sempre l’ora del dilettante, appunto.

A.C: a proposito, si discute molto dei talent show, sono la rovina della musica come dicono alcuni, oppure sono un’opportunità?

M.M: No, no, però per ogni talent che c’è in televisione ci dovrebbe essere una trasmissione musicale seria, non si può sostituire la chiarezza e la competenza con un talent show. Il problema non è che esistano, il problema è che non esiste altro, ci sono solo questi show che sono stati inventati come una specie di calmiere per il mercato: un personaggio se passa in televisione ha già la promozione, ha già qualche piazza per i concerti, vende qualche suoneria e alla fine si passa ad un altro

A.C: un’ultima domanda: mi piace molto la sua capacità di rendere poetica la vita di tutti i giorni, come quando ne “Il regno delle fate” descrive il mondo dei pendolari come un mondo incantato.

M: in effetti la vita di tutti i giorni secondo me è terribile! Quindi renderla poetica può far capire quanto può essere terribile ma quanto può avere una sua bellezza; si io penso che sia così, la vita quotidiana non è qualche cosa di normale, non credo ci sia molta normalità nella vita.

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Alle 22 inizia il concerto. La musica di Max Manfredi e Dremong, non è limitabile al semplice cantautorato, anche se in alcune canzoni c’è l’ombra del miglior De Andrè. I ritmi sono contaminati, fado, rebetiko, sirtaki, atmosfere balcaniche. Le canzoni più note come “L’ora del dilettante” sono innervate da spunti rock, con begli assoli di chitarra di Matteo Nahum e con le sonorità delle tastiere più di stampo Japan che progressive di Elisa Montaldo. Le nuove canzoni sono suggestive e convincono i fan che hanno riempito l’auditorium. Peccato che l’amplificazione non sia perfetta, nei primi brani le tastiere e l’autoharp di Elisa si sentono poco, in altri non si sentono sempre chiaramente i testi, che con un cantautore poeta come Max è una grave perdita.

Un concerto molto bello, che conferma l’ottima resa live di Manfredi e la bravura dei giovani accompagnatori. Terminato il concerto Max viene intervistato dal giornalista Francesco Cevasco, soffermandosi sul rapporto tra artisti e potere, raccontando come Lenin non capisse Majakowskij, e come Majakowskij e molti poeti fecero una brutta fine.

* Foto di © Carlo Gesso Giuliano