La nave romana di Albenga: storia di un mercante sfortunato…

di Francesca Giraldi – Nel I sec. a.C. un ricco mercante armò una nave da trasporto, lunga circa 40m e larga 10 m, al fine di commerciare, nelle colonie romanizzate della Gallia e della Spagna, le produzioni dell’eccellenza campana, sia alimentari sia ceramiche. La nave, appartenente alla tipologia della corbita, nonostante la grande mole, solcava i mari sospinta esclusivamente dal vento, grazie all’estesa vela issata su un albero di ben 50 cm di diametro. La struttura era estremamente robusta: lo scheletro dello scafo era composto dalle costole e dal dormiente in legno di rovere e intorno vi era il trincarino, una cinta in legno di abete che circonda lo scafo. Al di sopra vi era fissato un fasciame di tavoloni di abete e a sigillare tutto vi era uno strato isolante costituito da strami di canapa e una sottile lamina di piombo. Inoltre, al fine di evitare l’accumulo di acque all’interno dello scafo, alcune fistulae, canalette di scolo in piombo, convogliavano l’acqua e la espellevano al di fuori dell’imbarcazione.

La stiva venne colmata con anfore vinarie di produzione italica-campana, le Dressel 1B, alte poco più di un metro e caratterizzate per un orlo ripiegato esternamente per formare un colletto leggermente sfasato verso il basso, impostato sul collo, di lunghezza variabile, che termina in una spalla un po’ spigolosa. La pancia poteva essere pronunciata o longilinea. All’estremità inferiore delle anfore si trova un alto puntale, necessario per permettere l’impilamento. All’interno della nave ne furono caricate fino a dieci mila, disposte su cinque strati sovrapposti, con il puntale dell’anfora superiore trattenuto tra i colli delle inferiori. Sfruttando tali incastri il mercante era certo che, anche in presenza di turbolenze, i contenitori non si sarebbero rovesciati e infranti, spargendo il loro prezioso contenuto. Ulteriore accorgimento per evitare la dispersione del vino era costituito dalla chiusura ermetica dell’imboccatura dell’anfora. Il collo fu sigillato incastrandovi un tappo di sughero, spesso ben 7 cm, bloccato da uno strato di malta e calce. L’estrema sigillatura del collo era data dall’inserimento di una pigna verde che, con il passare del tempo, si sarebbe seccata e aperta a ventaglio. Quest’ultimo espediente poteva avere una duplice funzione, la prima era quella di aromatizzare il contenuto dell’anfora, e la seconda, più pratica, di facilitare la rimozione del tappo. La pigna infatti, grazie alle sue asperità, avrebbe creato dei luoghi di appiglio per incastrarvi due leve che permettessero di applicare la forza necessaria a rimuovere l’intero tappo. Invece, per preservare le proprietà organolettiche del contenuto da commistioni esterne, l’intera superficie porosa dell’anfora fu ricoperta di uno spesso strato di resina o pece.

Nonostante la stiva fosse stipata di anfore, rimaneva ancora qualche anfratto libero, perciò si colmò tutto lo spazio inoccupato con alcuni prodotti definiti “parassitari”, ovvero con alcune merci di piccole dimensioni e scarso peso per il trasporto delle quali era troppo oneroso approntare una nave. Si tratta di prodotti in ceramica, di pregio variabile, che consentivano di aumentare la gamma dei beni commerciabili pur non accrescendo i costi del trasporto. Vennero caricati a bordo alcuni piatti e coppe in ceramica a vernice nera, produzioni piuttosto raffinate e di discreto pregio. Devono il proprio nome alla vernice superiore, che a seguito della cottura in un forno con poca ossigenazione, presentano superficie nera e lucida, celando solo al di sotto il rossiccio dell’argilla. Oltre a questo tipo di ceramica, destinata soprattutto al servizio durante i banchetti o i pasti, vi erano delle stoviglie cosiddette “comuni”, caratterizzate per una lavorazione meno accurata e destinate alla dispensa o alla cucina. Una parte dei contenitori di uso quotidiano andarono ad attrezzare la cucina e la cambusa di bordo, con recipienti adoperati per la preparazione delle vivande e altri adibiti alla conservazione delle derrate alimentari solide, come le nocciole, o liquide, come l’acqua, il vino e l’olio.

La dotazione di bordo comprendeva, oltre alle stoviglie, tutto l’occorrente per provvedere alle improvvise necessità che potevano verificarsi durante la traversata. Ad esempio vi era un crogiolo in quarzo, adatto a fondere il piombo in modo da poter provvedere alle urgenti saldature e riparazioni. Per fabbricare funi a bordo era stato installato un meccanismo che prevedeva una ruota di piombo infissa, per mezzo di un foro centrale a sezione quadrata, su una struttura lignea che ne permetteva la rotazione. Disposti a croce rispetto al foro appena citato, ve ne erano altri quattro, all’interno dei quali passavano i singoli cavi che, grazie al movimento della ruota, si attorcigliavano vicendevolmente in modo da formare cime consistenti (le ipotesi di uso riguardanti la “ruota di manovra” sono molteplici, quella illustrata è la più accreditata da parte di chi scrive).

La pirateria era molto diffusa lungo i mari italiani e il Mar Ligure gode di un’efferata fama corsara all’interno delle fonti antiche. Al fine di una difesa in caso di attacchi, vennero caricati a bordo alcuni elmi, facenti parte dell’attrezzatura per una difesa estemporanea e improvvisata, certamente non attribuibili ad una vera scorta armata militare. Per scongiurare tali infausti eventi, era parte dell’arredamento un corno in piombo, con chiaro intento apotropaico, che doveva allontanare malocchi e malefici.

Purtroppo il corno non fu sufficiente, perché la nave, salpata dalla Campania, incontrò una violenta tempesta nei pressi di un centro abitato denominato Albingaunum. Nonostante il vicino riparo del porto e un agevole approdo sull’isola Gallinara, la nave, sospinta dal vento e dal mare, si inclinò a tribordo e si inabissò. Il carico scivolò verso il lato destro e il grande peso delle anfore, circa 45kg l’una da piene, sommato all’urto contro il fondale provocò la rottura dello scafo all’altezza del ginocchio (punto di raccordo fra il fondo della nave e la murata).

E il mercante? Non si sa con certezza quale sia stato il suo destino, ma sarebbe un finale decisamente romantico se potessimo ritrovare anche lui nelle parole di Giovanni Crisostomo: “Nessun mercante, subito dopo il naufragio e perduto il carico, smette di navigare, ma di nuovo percorre i mari, i flutti e il vasto pelago e recupera le ricchezze perdute”.

La storia appena narrata la si può rivivere durante ogni visita al Museo Navale Romano di Albenga, dove sono esposti i materiali recuperati dal relitto A durante le campagne subacquee effettuate dalla nave Artiglio, sotto la supervisione scientifica di Nino Lamboglia. Nonostante il Museo sia ospitato in uno dei più belli e meglio conservati palazzi nobiliari di Albenga, il palazzo Peloso Cepolla, e seppur il personale che gestisce il museo sia assolutamente preparato e coinvolgente nelle esposizioni, forse potrebbe trovare una sede più consona in un palazzo più ampio, che permetta una più completa esposizione dei numerosissimi reperti recuperati e magari una ricostruzione maggiormente interattiva per il pubblico. Sarebbe bello che vi fossero delle ricreazioni, non solo tramite modellini, ma anche riproduzioni a grandezza naturale, con le quali il pubblico possa entrare in contatto, simulazioni virtuali e magari anche laboratori didattici. Un validissimo esempio da emulare potrebbe essere costituito dalla mostra permanente “Memoria e Migrazioni”, allestita presso il terzo piano del Galata Museo di Genova, uno spazio espositivo adatto a scolaresche, famiglie e turisti culturali. Una valida sede potrebbe essere costituita dal Villino XXV Aprile, all’angolo tra Viale Italia e il lungomare Colombo, ristrutturato ormai anni orsono per ospitarvi, almeno in ipotesi, il Museo del Mare e mai sfruttato con tale scopo. Sarebbe costruttivo ipotizzare una compresenza del Museo Navale Romano e del Museo del Mare nel medesimo luogo, per creare una sorta di piccolo polo che affronti molteplici aspetti del Mare Nostrum.

* Terre e Orizzonti: la rubrica Corsara di Francesca Giraldi