Tesori in fondo al mare: il relitto B di Albenga

di Francesca Giraldi – L’agevole piana e il facile collegamento con le valli del Tanaro resero in epoca romana Albingaunum un crocevia di popoli e di merci. Ciò fu indubbiamente facilitato dalla costruzione della via Iulia Augusta che l’attraversava, ma grazie alla fortunata conformazione della costa e al naturale approdo offerto dall’Isola Gallinara, Albenga godeva di un efficiente porto, affacciato su una delle rotte marittime che conducevano alla Francia, ideale luogo di ricovero lungo le traversate. La rotta che solcava il Mar Ligure, diretta verso la Gallia, è per sommi capi ricostruibile seguendo il tragico susseguirsi di relitti di navi adagiate sul fondale marino.

Il mare prospiciente ad Albenga ha serbato nelle sue acque almeno due navi romane. La prima, nota già dagli anni ’50, si inabissò a circa un miglio dalla costa in direzione nord-est e rappresenta un vero gigante del mare per l’epoca. Si tratta infatti di una nave da trasporto di almeno 500 tonnellate, proveniente dall’Italia centro-meridionale, affondata durante il I sec a.C.. I reperti recuperati sono visibili all’interno del Museo Navale Romano, all’interno del Palazzo Peloso Cepolla.

La seconda nave, sulla quale ci concentreremo, è meno conosciuta rispetto al relitto A, e fu ufficialmente riportata alla memoria il giorno 5 novembre del 2003, quando i Carabinieri del Centro Subacquei di Genova Voltri appurarono l’esistenza di un deposito di anfore romane a circa un miglio dall’attuale foce del Centa, non distante dall’Isola Gallinara. Successive indagini confermarono l’effettiva presenza di un relitto appartenente a una nave oneraria, ovvero destinata al trasporto, di epoca romana. La sua presenza era già stata supposta negli anni ’80 quando, durante alcune analisi sul relitto maggiore, lo scan-sonar segnalò un’anomalia poco distante, che presentava le medesime caratteristiche della nave oggetto di studio.

La prima difficoltà incontrata nello studio del deposito fu l’elevata profondità a cui si trovava, ben 52 m. Infatti, a una tale distanza dalla superficie, è necessario impiegare operatori subacquei che richiedono, oltre ad un budget finanziario maggiore, procedure di sicurezza molto elevate. Pertanto si decise di procedere utilizzando strumentazioni geofisiche ad alta precisione.

Grazie all’intervento della nave “Galatea”, di proprietà dell’Istituto Idrografico della Marina, fu possibile ottenere una prima pianta del fondale e localizzare l’esatta profondità del giacimento; in un secondo tempo, grazie alla nave oceanografica “Universitatis”, si ottenne anche una scansione di dettaglio del fondale, corredata della topografia del relitto.

Da subito parve evidente che l’affondamento non si poteva attribuire all’emergere di scogli o ad asperità del fondale, quindi le cause furono da ricercarsi nella condizioni climatiche avverse che dovettero generare una tempesta improvvisa che investì l’imbarcazione proprio a poca distanza dai ripari dell’isola e del porto, provocandone l’inabissamento.

Le analisi e le riprese video subacquee consentirono di appurare che il deposito non era stato preda di saccheggiatori clandestini, come invece si verificò nel caso della nave maggiore; il contesto era quindi sostanzialmente intatto, se non per alcuni stravolgimenti causati dall’utilizzo di reti da pesca a strascico che, oltre ad abbattere la fauna ittica e a devastare i fondali, compromisero anche innumerevoli reperti archeologici custoditi dalle acque marine.

Il cumulo delle anfore si rivelò essere lungo circa 20m e largo circa 10m: ciò permette di ipotizzare che la nave fosse di dimensione medio-piccole, probabilmente inferiore alle 75 tonnellate, e a stiva piena poteva contenere circa 300-350 contenitori divisi su due livelli verticali. Il carico apparve composto da un’unica tipologia anforica e il prelievo di una permise di capire che si trattava di un’anfora destinata al trasporto e allo stoccaggio di vino. Il labbro del recipiente ha una forma cosiddetta “a colletto”, impostato su un largo collo che permetteva di prelevare mestolate di vino con sufficiente agio. L’anfora ha una forma allungata, ma lievemente arrotondata sulla pancia, che termina in un tozzo puntale conico adatto a essere infisso nel terreno o in un supporto ligneo. I due manici, propriamente definiti anse, presentano una particolare decorazione con solchi paralleli, che ne attraversano tutta la lunghezza e formano tre sporgenze chiamate, nel gergo tecnico, “costole”. L’analisi tipologica ha permesso di riconoscere un esemplare di anfora Dressel 1C, così definita da Lamboglia che per primo censì la anfore italiche. Il contenitore non è molto diffuso ed è in genere difficile trovare un carico composto solo da queste anfore, che si trovano più diffusamente associate ad altri tipi. Le anfore Dressel 1C furono prodotte in Campania tra la metà del II sec. a.C. e la metà del I sec. a.C. e furono sfruttate per esportare il vino.

Al di sotto delle anfore, potrebbero ancora conservarsi alcuni fasci lignei appartenenti allo scafo della nave, che potrebbero aggiungere nuove conoscenze a quelle già acquisite.

Il ritrovamento, anche se poco conosciuto, avvalora maggiormente l’inestimabile patrimonio archeologico subacqueo di Albenga di cui probabilmente Lamboglia era ben consapevole – avendo fondato proprio qui il Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina, rinomato in tutt’Italia – ma che purtroppo cessò l’attività negli anni ’80. Ormai il primato per le ricerche subacquee spetta alla Toscana e ad Albenga, di questo glorioso passato, rimane solo una nostalgica targa esposta sulla facciata del Palazzo Peloso Cepolla, ex sede del centro, e qualche cimelio come la Campana batiscopica utilizzata da Lamboglia stesso per le sue esplorazioni.

* Terre e Orizzonti: la rubrica Corsara di Francesca Giraldi