Viaggio nell’underground anni ’90 (seconda parte)

di Alfredo Sgarlato – Dopo il trip hop un altro sottogenere è fondamentale per la comprensione della musica degli anni ’90. Anche questa è una storia di pochi gruppi e poche città, eppure fondamentali. Il genere venne chiamato “post rock”, divise la critica come nessun altro e fu quasi ignorato dal pubblico, specie in Italia. La definizione è stata coniata da Simon Reynolds (il guru della stampa musicale inglese) in una recensione (su The Wire del maggio 94) al libro “Rock and the pop narcotic”, che vede nel grunge la quintessenza del rock. Reynolds vedeva nel grunge invece il peggio della musica attuale, la somma di quella che potremmo definire una linea reazionaria del rock, cioè i gruppi che fanno dei propri limiti una bandiera sino alla involontaria autoparodia, cioè punk, hard rock e metal (parliamo di forma musicale e non di contenuti espressi nei testi, beninteso).

Al contrario c’è una linea “progressista”, che comprende i Velvet Underground, i primi Pink Floyd, il “kraut rock” (rock sperimentale tedesco degli anni ’70), il “Canterbury rock” (l’ala più colta del progressive), la new wave, i gruppi dell’etichetta 4AD (Cocteau Twins, Dead Can Dance), Jesus and Mary Chain, i gruppi detti “shoegaze”(gruppi di rock con melodie molto orecchiabili ma cantate su muri di chitarre al limite del rumore puro), che cerca di superare i limiti e gli stereotipi. Sintesi finale di questa linea (su cui si potrebbe discutere a vita e non condivido del tutto) sono quattro gruppi che incidono per l’etichetta Too Pure, e che definisce post rock: Stereolab, Moonshake, Pram e Seefeel.

Come nasce questo genere? È possibile che, come scrivono alcuni critici, la mole di ristampe portata dall’avvento del CD abbia portato i musicisti a riscoprire molti gruppi del passato, senza snobismi di genere e che questa messe di influenze si siano mescolate in un tutto originale. Perché questa strana definizione post rock? Probabilmente Reynolds intendeva dire che con questi gruppi si arrivava a qualcosa che pur etichettabile come rock ne aboliva totalmente gli stereotipi, ponendosi come musica futura. Alla fin fine, i gruppi individuati da Reynolds come post rock si possono considerare una continuazione della new wave, senza la componente più propriamente rock, quella influenzata da Bowie e Roxy Music e con più forti influenze dub, elettroniche (soprattutto dei gruppi dell’etichetta Warp, Aphex Twin, Autecrhe etc) e di musiche colte ed extracolte.

Gli Stereolab, formati dal chitarrista Tim Gane ex McCarthy, mescolano Velvet Underground, Suicide, Can e Neu, ritmiche ossessive spesso in tempi dispari e suoni sporchi e low fi con eleganti melodie stile anni ’60, ottimo esempio il singolo Wow and flutter. Si può descrivere il loro sound come la musica del 2000 come potevano immaginarla negli anni ’50/’60 (infatti c’è chi conia per loro un’altra orribile definizione, “Retrò Nuevo”). Si può rimproverare loro una certa monotonia, la cantante Letitia Sadier è un po’ monocorde, ma tutti i loro fin troppo numerosi album hanno fascino.

I Moonshake, nei brani cantati dal chitarrista Lance Callahan, ex Wolfhounds riprendono una new wave metallica e allucinata memore di PIL e Pop Group, in quelli cantati dalla bassista Margaret Fiedler un rock jazzato acquatico e lunare. I Pram sono i più singolari, nello splendido primo album “The stars are so big” propongono una musica da luna park in acido, con riferimenti alla new wave più laterale e uterina (Slits, Raincoats, Ludus), ai Residents, al jazz, al rock tedesco e canterburiano, guidata dalla voce stralunata, persino un po’ stonata, di Rosie Cuckston. Dal secondo disco anche loro si normalizzano, proponendo un lounge pop elegante ed esotico, con dischi validi ma non dirompenti come il primo. Poco dopo la stampa rock scopre una scena di nuovi gruppi americani, Slint, Tortoise, Rodan, Gastr del Sol, June of 44, Rachel’s, Sea and Cake, tutti provenienti da Louisville, e spesso con membri in comune.

Aneddoto personale: più di 20 anni fa un amico mi prestò una cassetta di un gruppo stile Husker Du, gli Squirrel Bait. Rockerilla diceva che erano ragazzini sui sedici anni che avevano sciolto quasi subito il gruppo perché troppo impegnati con la scuola. Pensavo che gli Squirrel Bait sarebbero stati uno dei diecimila gruppi dimenticati, quando, una decina d’anni dopo ho scoperto l’esistenza della “scena di Louisville” (orribile città industriale del Kentucki, immortalata nel bellissimo film The Insider di Michael Mann), poco nota eppure fondamentale per la storia del rock cosiddetto alternativo o Post. Tutti i gruppi americani sopra citati sono formati da ex Squirrel Bait o da loro amici.

Il post rock è più o meno tutto qui. Nel ’99 la maggior parte dei gruppi citati era sciolta o in crisi creativa. Nel post rock molti imbarcano gruppi come Mogway o Godspeed You Black Emperor, che per me più che post rock fanno semplice rock strumentale lento (non hanno del post rock la fondamentale componente di contaminazione tra i generi), oppure i gruppi detti math rock (Don Caballero, Dazzling Killman), che si rifanno a certi King Crimson, e rispetto al post rock sono molto più fisici e più propriamente rock. Così come avveniva all’epoca della scoperta della new wave, in cui venivano intruppati musicisti – che io adoro- come Patti Smith, Joe Jackson o Graham Parker, che non c’entravano nulla ma erano contemporanei. I gruppi post rock, a parte un paio, non sono usciti dal novero delle band di culto.

La critica si è molto divisa sul genere, come avvenne negli anni ’70 col progressive, tra fortissimi detrattori, che accusano i gruppi di essere troppo cerebrali e poco comunicativi e chi invece considera il post rock il massimo prodotto dalla musica anni ’90, il filone più creativo e imprevedibile. Credo che l’ardua sentenza non arriverà mai.

* il trend dei desideri: rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato