Fratelli della costa – Sulla vittoria e sulla sconfitta

Ale: Pierre De Coubertin, padre delle Olimpiadi moderne, diceva che “l’importante non è vincere, ma partecipare”, una frase scolpita nella memoria collettiva che però oggi pare superata.

Alf: A me non sembra un concetto così superato; parlo della vita in generale, nello sport è così perché ormai è un tale business per cui vincere è un affare, una questione di investimenti, di business, l’idea del solo partecipare non si pone più.

Nella vita la gente mi sembra sempre più aver voglia di esserci e apparire: prendiamo ad esempio i funerali delle persone famose o le folle ai festival della letteratura in controtendenza con le vendite dei libri. Mi pare ci sia sempre più voglia di partecipare per sentirsi parte di un tutto: anche il fenomeno dei social network si può inquadrare in questo senso.

Ale: Gianni Clerici disse di se stesso in un’intervista: “Ero inadatto alla vittoria, perché la vittoria implica un atteggiamento bellico. Lo sport è, parafrasando Clausewitz, la continuazione della guerra con altri mezzi”, è un’idea che può essere portata anche nella vita di tutti i giorni…

Alf: Senz’altro perché serve avere spirito competitivo: ci sono persone cui la competizione mette ansia, altre che nella sfida sviluppano adrenalina e sono competitive per natura. Da questo potremmo dedurre che nessun sistema politico-economico è di per sé perfetto, perché essendoci individui più competitivi o collaborativi non esistono società perfette per tutti ma per ciascuna categoria.

Ale: Sempre partendo dallo sport, Giampiero Boniperti sostiene che “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”, suggerendo un rapporto fra vittoria e cinismo.

Alf: Un certo cinismo ci vuole… una ricerca sostiene che la categoria che ha più successo in borsa è quella degli psicopatici, i quali non pensano che per una loro transazione economica delle persone possano perdere il lavoro o andare sul lastrico; per quanto si possa essere cavallereschi un po’ sull’avversario bisogna infierire.

Ale: Nelle librerie, su internet, sui media sono molto presenti le figure dei “mental coach”, personaggi di varia provenienza che sostengono l’idea secondo cui la mente possa essere, in un certo senso, allenata a vincere; è possibile?

Alf: Sì: noi seguiamo strategie cognitive e potremmo avere degli errori di ragionamento derivanti da un’esperienza negativa, come pensare che la vittoria e la sconfitta dipendano esclusivamente dalla fortuna.

Esempio più approfondito, prendiamo lo studente cui è andato male un compito; possiamo chiedergli il perché e vediamo una serie di possibili risposte: quella razionale (“non avevo studiato”), quella deresponsabilizzante (“solo sfortuna, avevo studiato delle cose e me ne hanno chieste delle altre”), quella paranoica (“è l’insegnate che mi odia, posso fare il possibile, però….”) o quella depressiva (“sono un fallito, nella vita mi andrà sempre tutto male”).

Ale: Nel tuo lavoro che strategia persegui coi pazienti?

Alf: In questo caso si fa anamnesi dettagliata della vita del paziente e gli si chiedono degli esempi concreti a favore della propria tesi: se uno ha un vizio cognitivo nel valutare eventi si noterà che spesso entra in contraddizione o come non riesca a raccontarne uno specifico.

Ale: Come si legano i concetti di vittoria, autostima e immagine pubblica di un individuo?

Alf: É inevitabile che i successi portino autostima e viceversa: uno razionalmente può valutare i perché di una sconfitta e imparare dalla medesima e un minimo di frustrazione può anche avere valore positivo ma è inevitabile che il successo aumenti l’autostima e migliori l’immagine.

Si torna al discorso di prima su come gli altri vedono il successo e gli stili cognitivi sono gli stessi quattro di cui sopra.

Ale: Spesso risultano essere vincenti persone magari meno capaci ma con una maggiore faccia tosta nel proporsi; è così? Perché?

Alf: Sapersi presentare bene aiuta e la maggior parte delle persone ha schemi di valutazione piuttosto ingenui (anche perché spesso sanno molto poco); quindi se uno si sa presentare come vincente la gente presuppone che lo sia, non si fa domande profonde su certe carriere ma punta più sull’immagine, senza contare che molti scambiano una personalità aggressiva per una personalità forte, ammesso che esistano personalità deboli.

Ale: Perché, non esistono?

Alf: No, esistono personalità passive, che spesso sono molto più forti; è quello che si chiama “vantaggio secondario del sintomo” per cui un individuo depresso può utilizzare la propria debolezza per avere la sua famiglia ai suoi piedi.

Ale: Verrebbe quasi da affermare che la vittoria sia un concetto relativo.

Alf: Certo che lo è; chi ricorda chi ha vinto l’Oscar due anni fa o chi sa dire più di 5 Premi Nobel? Al di fuori del calcio qualsiasi altra vittoria dopo poco tempo viene dimenticata.

Ale: Quando il vincitore suscita simpatia?

Alf: Agli italiani il vincitore piace se è piagnone, sennò genera invidia e sospetto; per esempio Mourinho, che era capace di vincere 5-0 ma di lamentarsi in ogni caso per una mancata ammonizione o una squalifica per la settimana seguente.

Ale: Esistono anche vincitori che definisco “empatici”, capaci di farsi amare elevando al loro livello le persone che gli gravitano attorno semplicemente facendoli sentire al loro livello per un istante.

Alf: Anche quella è una buona strategia di marketing.

Ale: Paradossalmente per certi vincitori la difficoltà sembra essere quella di gestire la vittoria stessa.

Alf: Gestire la vittoria è difficile, ci vuole uno spessore notevole; lo vediamo nel mondo dello sport o dello spettacolo, dove non tutti riescono a reggere questa situazione per svariati motivi: chi perché è partito troppo dal basso, chi perché non ha fatto una giusta gavetta, chi per limiti caratteriali o culturali, chi schiacciato dalla troppa differenza fra le aspettative e i risultati.

Ale: Venendo al concetto di sconfitta, una figura con cui spesso ci si interfaccia nello sport o in letteratura è quella del “perdente di successo”: come la si può catalogare?

Alf: Esiste una mitologia del perdente, soprattutto in America, dove c’è un enorme culto del successo però c’è anche un grandissimo culto dell’individuo al di fuori delle regole che li ingabbiano (come quelli interpretati al cinema da Eastwood e Stallone); per cui il perdente diventa persino più da ammirare del vincitore perché il vincitore è stato alle regole, mentre il perdente è talmente oltre le regole che risulta più forte.

A volte certe sconfitte possono affascinare più delle vittorie, come nel caso del genio incompreso o del poeta maledetto: l’Olanda di Cruijff giocava benissimo ma aveva gli arbitri contro, come nella finale con l’Argentina dei dittatori; quindi a volte le sconfitte possono avere un fascino per come si raggiungono.

Ale: In quest’ottica si potrebbe ricordare Indro Montanelli, il quale, citando il motto degli hidalgos spagnoli, asseriva che “la sconfitta è il blasone delle anime nobili”.

Alf: Montanelli era un individualista, per cui (come per gli americani del resto) il vincitore è uno che si piega ai compromessi. In politica per esempio tanti partiti sono vissuti sul mito vero o presunto della sconfitta, che è divenuta un elemento identitario.

Ale: Restando in politica, fra poco più di un mese ci saranno le elezioni politiche e assisteremo alla solita catena di dichiarazioni secondo cui tutti sosterranno di aver vinto: come si giustifica questo atteggiamento?

Alf: In un sistema proporzionale chiunque superi una soglia può dire di aver raggiunto il suo obiettivo, come a fine campionato molti allenatori dicono “con squadra che avevo ho fatto il massimo” anche se magari a inizio stagione aveva detto che avrebbe vinto tutto e nessuno se lo ricorda.

Ale: Da un certo punto di vista è come se si cercasse di giustificare le proprie sconfitte, dare loro dignità inserendole in una narrazione, facendo recuperare loro una dimensione quasi epica.

Alf: Certo, è cosa molto forte al giorno d’oggi: per lungo tempo l’umanità ha avuto un pensiero di tipo mitico-poetico; poi la spiegazione del mondo è stata affidata prima alle grandi religioni monoteiste e poi alle ideologie. Oggi che queste sono in crisi, si torna alla nascita di questi miti e narrazioni, i quali però diventano più forti di quelle grandi (che poi è quello che viene definito postmodernismo).

Un bell’esempio è quello delle comunità immaginarie: in concreto l’inglese che ti chiede l’amicizia su facebook perché ti scopre fan di quel grande gruppo rock sottovalutato, o il tifo calcistico, che oggi è una delle più alte forme di aggregazione (anche con le peggiori degenerazioni).

Tutto ciò in quest’epoca diventa forte fattore identitario, anche più dell’appartenenza geografica o politica.

Ale: Tornando alla dimensione mitica, la morte può essere considerata uno strumento di redenzione e di vittoria?

Alf: Non tanto di redenzione… la vedo più così: il grande tabù della società di oggi è la morte, che viene negata nel maggior modo possibile (come l’invecchiamento, che ne è il suo naturale prologo); per cui in un mondo che nega la morte, il personaggio che muore inaspettatamente viene visto come un sintomo di eccezionalità e di divinità (“muore giovane chi è caro agli Dei”), partecipando quindi alla costruzione del mito.

Ale: Elaborare una sconfitta è un po’ come elaborare un lutto?

Alf: La sconfitta è comunque un lutto perché è una cosa negativa: il lutto ha un suo tempo fisiologico di elaborazione (diciamo pochi mesi) e quando si protrae oltre questi tempi si comincia a parlare di depressione.

Bisogna sempre chiedersi se una sconfitta scateni una depressione latente o se una personalità con tendenze depressive sia più esposta alla sconfitta; in genere sono vere tutte e due le cose: i comportamenti umani sono molto più circolari che lineari ed è sempre difficile capire quale sia causa e quale sia l’effetto

Ale: In conclusione, si impara di più dalla vittoria o dalla sconfitta?

Alf: É un discorso lungo: in teoria si dovrebbe imparare dalle sconfitte (si parla di apprendimento per prove ed errori); come sostiene la teoria del metodo scientifico, un atteggiamento razionale sarebbe quello di vagliare le smentite.

Tuttavia penso che le cose stiano così: se ho a che fare con un caso opposto alle mie attese devo cambiare strategia, invece l’essere umano per natura cerca delle conferme e, sulla base di uno o due casi positivi, pensa di aver teorizzato un modello vincente; per esempio Jung, partendo da pochi casi selezionati, faceva questo errore, mentre Freud modificava una teoria se vedeva un caso negativo e manteneva un atteggiamento più clinico, a partire dalla teoria dei sogni come appagamento del desiderio, che crolla di fronte agli incubi, o alla modifica della teoria sull’angoscia di fronte ai vari casi clinici riscontrati.

* fratelli della costa: la rubrica Corsara di Alessandro Sbarile e Alfredo Sgarlato