Political Essay – Primo Maggio tra antipolitica e coscienza di classe

di Franco Astengo – La cosiddetta, e ormai di uso comune all’interno del dibattito di questi giorni, “Antipolitica” rappresenterà sicuramente uno dei temi che saranno toccati nel corso delle celebrazioni di questo Primo Maggio 2012, anno I dell’era dei “tecnici”.

Quale “Antipolitica” dovrebbe, però, essere discussa e ricordata nell’occasione? Non certo quella della “vulgata” dominante, dei comici comizianti che, sull’onda delle male parole, sembrano in via di soffiar via un poco di spazio nelle istituzioni al variegato complesso del “partito di cartello” che domina comunque, sul piano del potere di nomina e di quello di spesa, il sistema politico italiano, pur essendo giunto al punto più basso del proprio indice di credibilità nell’opinione dei cittadini.

L’Antipolitica da ricordare, discutere e analizzare dovrebbe essere, invece, quella esercitata dalle cosiddette “élite dominanti”, il ceto dirigente o presunto tale.

C’è già capitato di riprendere l’antica definizione gramsciana di “sovversivismo delle classi dirigenti”: un concetto che, oggi, dovrebbe essere ampliato attraverso l’esame della saldatura perfetta che si è realizzata, sull’onda della crisi, tra diversi soggetti, compresi gli esponenti politici, nel muoversi nella direzione, per loro assolutamente prioritaria, del ristabilimento di condizioni di esercizio del dominio sociale inteso – appunto – come ricostruzione dell’antico “dominio di classe”, cercando così di cancellare decenni di lotte del movimento operaio.

È questo l’obiettivo che viene perseguito, in Italia, attraverso l’altrettanto cosiddetto “governo dei tecnici” che si muove, da questo punto di vista, con un vero e proprio “furore ideologico”.

Tutto questo sta avvenendo in un Paese nel quale il vincolo esterno (europeo ed extra europeo) è strumentalizzato al fine appena sopra esposto del ristabilimento pieno del dominio di classe appunto, negando la verità delle origini della crisi; un Paese privo di struttura industriale dove i faccendieri dei partiti siedono nei consigli d’amministrazione delle grandi aziende di stato (e i ministri “tecnici” si inalberano se, in quella direzione, si rivolgono i magistrati per indagare), dove il grado di corruzione a tutti i livelli ha raggiunto punte ormai difficili da calcolare sul piano quantitativo; un Paese nel quale l’intero sistema dei partiti ha “raggirato” cittadine e cittadini autofinanziandosi in modo sontuoso al di fuori dalla legalità; un Paese dove intere parti del territorio sono in mano alla criminalità organizzata che provvede, attraverso il riciclaggio, a inquinare l’economia delle restanti parti; un Paese dove la pressione fiscale è arrivata, più o meno al 50% del reddito e nel quale si continuano a tagliare furiosamente servizi e “welfare”, con trasporti e reti di infrastrutture del tutto inadeguate e obsolete; un Paese dal debito pubblico enorme, alimentato in gran parte – appunto – dalla corruzione dove si prende in giro la gente stabilendo l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, senza spiegare alle cittadine e ai cittadini come si è formato questo deficit (ad esempio attraverso l’acquisizione dei titoli tossici di derivazione USA la cui emissione è alla base di gran parte dei meccanismi della crisi).

Se tutto ciò, appena accennato e del tutto sommariamente elencato (abbiamo omesso gli effetti: ad esempio sul terreno della disoccupazione e non abbiamo citato la vicenda degli “esodati” che rappresenta il punto più eclatante della rottura del patto di fiducia tra i cittadini e lo Stato, rottura avvenuta per esclusiva ed assoluta responsabilità dei rappresentanti dello Stato) non può essere definito come “antipolitica”, allora abbiamo sbagliato direzione e ce ne scusiamo, ma crediamo proprio, invece, di aver toccato il tasto giusto.

Celebrando il Primo maggio si dovrebbe tentare di riflettere, allora su questi temi, ma soprattutto dovrebbero cercare di rifletterci gli esponenti politici che ci hanno portato in questa condizione, con responsabilità gravissime: abbiamo avuto un governo populista, capace soltanto di agire in nome degli interessi personali del Capo, ma non siamo stati capaci di produrre un’alternativa credibile affidandoci così al governo più feroce della storia d’Italia dai tempi di Pelloux, mentre, a sinistra, imperversano improbabili personalismi, un’incapacità sostanziale di uscire dal ghetto dell’autoreferenzialità e di avanzare una proposta concreta, non solo di affrontamento immediato della crisi, ma soprattutto di idea complessiva di trasformazione sociale.

Il Primo Maggio è da ricordare anche perché, da parte di alcuni, si pensa di cancellarlo in nome dei “negozi aperti in una città turistica”: si tratta semplicemente di un affronto da respingere seccamente.

Certo, ci sarà chi, come sempre lavorerà il Primo Maggio per garantire la vita degli altri, i servizi, l’espletamento di necessità inderogabili: però la nostra sarà un’idea romantica, ma il Primo Maggio vede Città e Campagne ferme, rispettose, nei cortei e nei comizi colmi di bandiere rosse.

Rispettose, campagne e città, dell’idea del lavoro come riscatto sociale.

Nel nostro Paese il lavoro è il fondamento del primo articolo della Costituzione Repubblicana, la rappresentazione più visibile, immediata, della sua importanza all’indomani della Liberazione: lavoro, antifascismo, democrazia, questi i punti discriminanti di un’identità dell’Italia Repubblicana che non intendiamo dismettere, anzi vogliamo affermare con forza, uscendo dal tunnel dell’arretramento dentro il quale siamo finiti da qualche anno a questa parte.

Non intendiamo, però, scrivendo questo poche note limitarci a un’idea quasi “autarchica” del Primo Maggio: il Primo Maggio non è un’invenzione italiana, il Primo Maggio appartiene al mondo.

Il Primo Maggio è una data simbolo in tutto il mondo.

La Memoria: il Primo Maggio nasce a Chicago nel 1886 e, tre anni, dopo, nel 1889 quella data fu assunta dalla Seconda Internazionale, quale giornata di mobilitazione per la riduzione dell’orario di lavoro.

Le Otto ore di lavoro sono state il simbolo, l’essenza, dell’internazionalizzazione della lotta del movimento operaio: insieme mito e obiettivo del riscatto sociale, punto d’arrivo di una diversa idea dello sviluppo, dell’equilibrio sociale, della possibilità di cambiare “lo stato delle cose presenti”.

Le “Otto Ore” quale piattaforma universale che consentì, all’epoca, di rendere la classe operaia in lotta visibile e vincente.

L’Attualità: la rappresentazione più visibile dell’attualità è quella che è stata definita “globalizzazione” (non certo una novità, da un determinato punto di vista).

Una “globalizzazione” che porta con sé ancora il conflitto, la guerra, le divisioni etniche e razziali, l’idea dell’estensione del mercato capitalistico al mondo intero.

Bisogna affermare, senza indugi che, in questo senso, la “Storia non è finita”: la globalizzazione non rappresenta l’estensione definitiva del dominio capitalistico.

A questo proposito dobbiamo riprendere un cammino di riflessione e di lotta, pensando alle divisioni che gli interessi specifici, particolaristici, corporativi, settoriali che caratterizzano il fenomeno dell’espansione economica nel mondo: la dialettica unità – scissione oggi caratterizza, forse ancora di più che in altre fasi della Storia, la natura del capitalismo in forma fortemente contraddittoria; maggiore è l’unità del mercato mondiale, più grande lo scontro tra gli Stati, oggi a dimensione continentale come dimostrano i fatti più recenti.

Questa tendenza va valutata con attenzione, a questi processi in atto va contrapposta un’idea unitaria che parta dalle condizioni materiali dello sfruttamento del lavoro, della sua alienazione, della contraddizione irriducibile e principale che questi fenomeni provoca.

Il Primo Maggio come occasione di riflessione, dunque, per un’idea unitaria di riscatto sociale, di recupero del concetto di classe, dell’estensione dell’idea di una trasformazione radicale degli equilibri economici, politici, sociali.

Ancora una volta, al di là delle nostre diverse opinioni politiche correnti, si impone la necessità di sviluppare, nei tempi presenti, un’idea di fondo: la contraddizione sotto gli occhi di tutti è ancora quella tra le potenzialità che la specie umana possiede e i limiti che l’organizzazione sociale e politica del capitalismo le impongono: lottare perché si vada oltre l’angustia dello scambio tra capitale e lavoro salariato, prefigurare una società libera dal bisogno.

Queste, molto semplici, le ragioni per cui vale ancora la pena , ora più che mai, celebrare il Primo Maggio.

* Franco Astengo- Savona, politologo