LA LETTURA DEI GIORNALI

di Franco Astengo – La lettura dei giornali rimane la preghiera dell’uomo moderno, il momento più significativa del confronto con le idee degli altri al di fuori dal frastuono ridondante della canea televisiva e dall’ansia comunicativa del web, strumenti che pure siamo costretti a usare per relazionarci con il mondo. Con questo spirito mi sono accinto anche oggi a sfogliare le pagine dei principali quotidiani italiani che ancora, ostinatamente, compro all’edicola rifiutandomi di consultarli on-line: una fredda mattinata di gennaio che conciliava la concentrazione sulle parole scritte.

Ho trovato, inavvertitamente, risaltare l’idea di questa nuova Italia messa in piedi dopo l’ubriacatura populista degli anni scorsi: un’Italia dominata davvero da un’élite, fredda, determinata, che ha in mente soprattutto ed essenzialmente la conservazione del potere per la propria casta di lontani e d’intoccabili, non più la “casta” arraffona e sconclusionata dei presunti “nominati” dal popolo, ma una sorta di “governo dei filosofi”, di nuovi mandarini, algidi chirurghi della dinamica sociale.

L’impressione più netta, in questo senso, si ricava dall’intervista di un professore, che si cimenta talvolta anche a scrivere editoriali scendendo provvisoriamente dal suo empireo, sul tema del riconoscimento legale del titolo di studio anzi della laurea, unico titolo di studio degno di essere riconosciuto come tale (le fatiche del maestro Manzi per insegnare a tutta l’Italia a leggere e a scrivere, il lavoro di formidabile acculturazione collettiva compiuto dai grandi partiti di massa nell’Italia del dopoguerra, la scuola media unica e l’accesso libero alle facoltà universitarie appaiono ormai spettri lontani della ricerca di un dannoso egualitarismo culturale).

Ebbene due passaggi di quell’intervista sono significativi. Laddove si sostiene che la prima domanda da rivolgere a un laureato è: dove ti sei laureato? Presupponendo la risposta in Serie A, o B o C? Come se la scelta dipendesse dal merito o non dalle opportunità di partenza, dalle disponibilità logistiche, dalle condizioni economiche della famiglia, dalla posizione sociale di papà, insomma da tutte quelle che cose che sappiamo, che compongono materialmente le scelte dei nostri giovani, ben al di là della bravura soggettiva.

Si torna, quindi, alla distinzione di classe fin dentro l’Università, figuriamoci fuori nella concezione della idea del feroce darwinismo sociale che anima queste persone. Senza contare il disprezzo che si esprime, sempre nelle parole di questo professore, per i vigili urbani che si iscrivono a scienze politiche e magari, aggiungo, anche per le bidelle che si laureano in psicologia.

Il secondo passaggio può essere così virgolettato “Il governo decida, non stia a sentire la gente”. E’ inutile commentare la concezione della democrazia che emerge da questa affermazione.

Dalla crisi emerge così questo nuovo notabilitato che ha preso in mano le redini del Paese guardando all’Europa dei tecnocrati, non tenendo in alcun conto la fatica del popolo, di chi suda il proprio lavoro, di chi cerca di ritrovare una propria dignità sociale nello studio: l’idea appare proprio quella di un’Italia divisa tra un ceto assiso, per meriti imperscrutabili, sulla loggia del potere e un’Italia situata in basso, china all’opra tacendo, senza possibilità di risalire, far sentire la propria voce, esprimere l’aspirazione alla solidarietà e all’eguaglianza.

Un’Italia senza voce e volto, dominata da una corte di professori in toga che decidono senza interrogare. Su questo stato di cose, molto concreto, la sinistra italiana non ha nulla da opporre se non un chiassoso movimentismo o un pallido appoggio per tentare di mantenere comunque una fetta di apparente potere da spartire al tavolo dei nuovi dominatori?

Forse sarebbe il caso di ragionare nuovamente in termini di “classe”, perché da qualunque parte la si rigiri di questo trattasi, almeno fino a prova contraria.

* Franco Astengo – Savona, politologo