Il futuro del giornalismo sul web: intervista a Bill Keller, direttore del “New York Times”

di Joseba Elola – C’è un uomo con i capelli grigi e lo sguardo azzurro, di lince, in mezzo alla sala della redazione. È seduto di fronte a un comune computer, digitando come uno qualunque, con la sua camicia azzurra a quadri e i jeans consunti. La redazione del New York Times appare come un’oasi di tranquillità alle due del pomeriggio. Al di fuori di questo maestoso edificio progettato dall’architetto Renzo Piano, il cuore di New York ribolle di rumore e di calore.

L’uomo dallo sguardo azzurro si alza e si avvicina per salutare. Sì, è Bill Keller, il direttore del giornale più influente del mondo. Ed è lì, come uno tra i tanti, in mezzo alla gente.

Nessuno sfarzo o status symbols nel suo ufficio, semplice, piccolo, funzionale: una scrivania da lavoro, un tavolo in marmo, un divano e due poltroncine verdi. Keller si siede in una di esse e appoggia il piede sul tavolo.

Nella parete sono appese allineate in serie cinque maschere di quattro ex-presidenti dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e di un ex capo del KGB: Stalin, Lenin, Breznev, Gorbaciov e Laventri Berija. Appartengono ai giorni in cui Keller ha vinto il premio Pulitzer come corrispondente da Mosca per la sua copertura del crollo di un impero. “Sono stati indubbiamente i più felici giorni della mia vita”, dice. “Non c’è lavoro migliore che essere un corrispondente in un giornale al quale interessano le notizie internazionali”.

D.: E lei perché ha deciso di fare il giornalista?

R.: Ci sono molte ragioni per cui la gente che conosco ha deciso di fare il giornalista. C’è chi lo fa per raccontare una grande storia, per cambiare il mondo, per viaggiare in luoghi esotici o per l’apparente glamour di essere sotto i riflettori, e suppongo che io abbia sentito tutto questo in una certa misura. Ma per me il grande fascino del giornalismo è il fattore puzzle: affrontare un problema complesso e scrivere per spiegarlo a qualcuno. Mi piace che mi dicano: “Oh, non lo sapevo”; ma preferisco ancor di più che mi dicano: “Non avevo mai pensato a ciò in questo modo”. Mettere in discussione i pregiudizi e ripensare la conoscenza convenzionale è un grande risultato e per questo è così importante che lo facciamo per una democrazia; non solo esporre le cose orribili che accadono a porte chiuse, ma anche fare in modo che la gente usi il suo maledetto cervello.

Il New York Times si sta preparando ad alzare la sua posta. Dal gennaio 2011 sul web sarà a pagamento. Per la maggior parte degli utenti continuerà a essere gratuito, dice Keller. Implementeranno un sistema con contatore, simile a quello del Financial Times. “Incasseremo dagli utenti più fedeli”. Solo a partire da un consumo determinato di pagine si inizierà a pagare. “La bellezza di utilizzare un sistema con contatore è che lo si può impostare. Il piano prevede che nei primi anni non si raggiungeranno grandi entrate; non vogliamo diminuire il traffico e guadagniamo molti soldi con la pubblicità web, vogliamo preservarla. Se ci renderemo conto che il contatore sta diminuendo il traffico, regoleremo il contatore.

D.: Ma lei pensa che a questo punto del film, con Internet così restio ai servizi a pagamento e la facilità con cui si possono saltare i muri, la gente pagherà?

R.: La gente è disposta a pagare per i contenuti. Il Financial Times e The Wall Street Journal lo hanno dimostrato. Già paga per i download di libri, di musica. Non pagherà per qualcosa che può ottenere gratuitamente in altri siti. Confidiamo che questo funzionerà, perché non facciamo la stessa cosa di quello che fa la CNN o la BBC o USA Today, siti dove si possono ottenere informazioni gratuite. E siamo abbastanza sicuri che i nostri lettori lo percepiscono.

Cinque anni fa, il principale quotidiano della stampa americana ha affrontato il processo di integrazione delle redazioni delle edizioni cartacea e web. Una delle migliori decisioni che fin’ora hanno preso, dice Keller. A molti giornalisti tradizionali è pesato passare a fare “blog” senza sentirla come una compromissione della loro integrità. “La resistenza non è scomparsa ma si è enormemente ridotta. La barriera reale era psicologica e culturale. L’integrazione ci ha dato licenza per sperimentare e ci ha portato all’innovazione”.

D.: E come andrete a competere con un medium come The Huffington Post, che vi sta tallonando nelle cifre del traffico web con soli 55 giornalisti?

R.: Si potrebbe rigirare la domanda: come può competere The Huffington Post con il New York Times quando hanno pochissimi reporter, addirittura non pagati o mal pagati? Attraggono il traffico con le notizie di celebrità e video di YouTube; non lo dico come una critica a The Huffington Post; semplicemente noi non facciamo questo. Ho grande ammirazione per ciò che Arianna ha raggiunto, ma, in sostanza, non è un sito di notizie. Aggancia molta opinione: l’opinione è conveniente, non è necessario inviare nessuno con un aereo… L’aspetto per il quale critico The Huffington Post, Politico e altri aggregatori è che a volte sono molto negligenti nel prendere in prestito materiale nostro e di altri siti. The Huffington Post porta via molto traffico al New York Times: quando mettono un titolo e un link alle nostre pagine va bene; ma a volte riproducono così tanto del nostro articolo che nessuno ha più bisogno di cliccare sul link alla nostra pagina. Questo sarà un campo di battaglia continuo tra gli aggregatori low cost e i media di notizie di qualità.

Keller crede che se non si regolerà la situazione, i media finiranno per litigare nei tribunali. “C’è una differenza tra il collegamento e un furto. Penso che sia preferibile per tutti giungere a un accordo e negoziare una soluzione che permetterà di riassumere il nostro materiale senza rubarlo. Questo è il selvaggio West. Chi sarà lo sceriffo della città senza legge?”.

Il rapporto con Google è complicato, assicura. Gli fornisce molto traffico, sì, ottengono alcuni vantaggi negoziando con loro. “Ma al tempo stesso vi è un rapporto conflittuale. Non vorrei che il destino delle notizie rimanesse interamente nelle mani della gente di Google. Questo sì, non condivido la frase di Rupert Murdoch che sono essenzialmente pirati e depredatori”.

Bill Keller si schiarisce la voce. Parla con calma, prende il suo tempo per trovare le parole esatte. Il suo tono di voce è grave: il suo accento conserva l’inflessione della sua natia California, dove venne al mondo 61 anni fa. Sembra molto più giovane. Lo descrivono come un uomo cerebrale e attento.

Ha studiato in un istituto cattolico, solo per ragazzi, in California. Fece i suoi primi passi nel giornale della scuola: “Ti dava la possibilità di mettere il dito nell’occhio delle autorità” ricorda. Poi, all’Università, ha proseguito la sua vocazione. Dopo il Premio Pulitzer per la sua copertura come corrispondente a Mosca, è stato corrispondente in Sud Africa, editorialista ed è passato per tutte le funzioni del giornale che dirige.

D.: Il guru Jeff Jarvis dice che i raccontatori di storie sono finiti.

R.: Adoro Jeff, ma spesso si lascia andare a grandi pronunciamenti. I raccontatori di storie finiti? Davvero? Guarda l’elenco delle notizie più in evidenza nel nostro sito: le storie che la gente condivide sono storie narrate; e credo che quanto migliori saranno i dispositivi, più storie si potranno raccontare; l’iPad non è l’ultimo, ci saranno dispositivi migliori per leggere, più facili per l’occhio, illustrazioni in meravigliosi colori; credo che il giornalismo narrativo ha un futuro solido, e lo credo veramente.

D.: Come pensa che sarà il paesaggio mediatico da qui a cinque anni? Il giornale stampato sarà una parte secondaria di una grande piattaforma digitale?

R.: Non siamo nella situazione di predire il futuro, ma nella situazione di ciò che accade oggi o ieri. Immagino che il futuro sarà una combinazione di sopravvissuti e di nuove imprese: ci saranno media tradizionali che si saranno adattati bene. Da qui a cinque anni, credo che ci sarà ancora una significativa domanda di giornali stampati, non di tutti. L’età media dei sottoscrittori di The New York Times è inferiore a 50, le persone non cambiano le loro abitudini così rapidamente. E ancora si vendono dischi in vinile; allo stesso modo i giornali alla fine diventano un ítem boutique (oggetto di culto). In cinque anni, sempre più persone si indirizzeranno al web come loro prima scelta. E ci saranno nuove società con differenti modelli di affari: iniziative senza scopo di lucro; alcune, sostenute da filantropi; altre, come The Huffington Post, sostenute dalla pubblicità.

D.: La questione qui è quale sarà il futuro del giornalismo di qualità. E il giornalismo online sarà sufficientemente redditizio per pagare i giornalisti per indagare? [Bill Keller fa un profondo sospiro].

R.: Non lo so. Questa è una preoccupazione reale. Io tendo a essere ottimista per natura e credo che ci sia una reale domanda di giornalismo investigativo, di giornalismo che chieda conto alle istituzioni potenti, credo che ci sarà sempre un mercato per questo. Però la realtà è che gran parte di questo giornalismo è morto negli ultimi cinque o dieci anni perché è costoso. I giornali che hanno maggiormente sofferto lo sconvolgimento della nostra attività sono stati i quotidiani metropolitani che dipendevano dagli annunci classificati. Tra le nuove imprese ci sono organizzazioni che sono disposte a fare buon giornalismo, giornalismo duro. E bisogna dire che il web aiuta in molte cose: permette di verificare meglio i dati; lo studio delle banche dati darà buoni risultati; e nasceranno nuove forme di giornalismo di controllo.

D.: Dunque, la rivoluzione digitale aiuterà a rafforzare le democrazie?

R.: Si tratta di una questione importante. Spero di sì; diciamo che ho questa speranza.

Il New York Times ha già una applicazione per l’iPad che permette di accedere a otto o dieci contenuti, il cosiddetto Editor’s choice (La scelta del direttore). “L’iPad cambia le regole del gioco”, dice, “ma nessuno sa in quale misura. Cambia le regole del gioco per i giornali, perché è un’esperienza di lettura molto piacevole. C’è un mito secondo il quale la gente non legge i pezzi lunghi su uno schermo. Beh, in realtà, lo fanno. E molto”.

L’organico è di 1.150 giornalisti. The New York Times Company ha chiuso il primo trimestre del 2010 con un utile netto di 9.540.000 €, cifre che hanno un sollievo alla dama grigia del chiosco americano, che lo scorso anno ha registrato una perdita di 74,5 milioni euro. “La maggior parte dei ricavi proviene dal giornale stampato”, conferma Keller. I ricavi pubblicitari del cartaceo sono scesi vertiginosamente e ora rappresentato solo la metà di tutto ciò che rende il giornale a stampa (l’altra metà proviene dalla vendita delle copie).

D.: Ora, in generale, i direttori dei giornali sono soliti capitolare con più facilità alle richieste dell’impresa rispetto alle generazioni precedenti. Non so se è d’accordo.

R.: Generalizzando intorno all’attività, credo che ci sia abbastanza verità in ciò; in parte la condizione disperata dell’economia ha fatto sì che tutti si sentano più vulnerabili, per cui ci sono più compromessi di una volta e siamo in questa frenetica ricerca di una soluzione magica di modello di affari che supporti il giornalismo.

D.: E il suo caso è questo?

R.: È chiaro che vi è stata una ricerca di nuovi affari, ma una delle cose che più mi piace di questo sito è che posso andare al mio editore e dire: “Non possiamo fare questo, questo compromette la nostra integrità, il nostro giornalismo”. E vinco sempre in queste discussioni. E se la questione è lasciare che gli inserzionisti abbiano maggiore influenza su ciò che scriviamo o il doversi tirare indietro in un reportage investigativo [scomodo], sono un tipo fortunato: io sono protetto in un modo in cui non lo sono molti direttori.

“Le reti sociali sono buoni strumenti per trovare notizie”

D.: El País ha appena messo in funzione Eskup, un social network che mette in contatto i giornalisti con i lettori. Crescerà la dimensione sociale dei mezzi di comunicazione?

R.: Sì, lo credo. Io tendo ad essere scettico sulle persone che dichiarano come sarà il futuro in termini assoluti, ci deve essere spazio in questo dibattito per l’incertezza. I giornalisti si muovono bene nell’incertezza, non sappiamo come finirà una guerra o quale politico cadrà e il nostro mondo è in un momento di grande incertezza. Penso che le reti sociali siano buone come strumenti per trovare notizie, per diffondere le informazioni e come modo per mettersi in contatto con i lettori. Da tempo abbiamo interviste da parte dei lettori e fanno ottime domande.

D.: Molte persone pensano che la stampa tradizionale sia stata per anni molto arrogante, si sono sentiti i proprietari delle notizie e non ha tenuto conto dei lettori.

R.: Vi è una certa verità in ciò. Uno dei motivi per i quali molti media sono stati lenti nell’adattarsi a Internet è stato perché si vedevano come una élite irraggiungibile e gli piaceva controllare il dibattito; quindi, sì, meritiamo di essere criticati per eccesso di orgoglio nella nostra storia. D’altra parte, la gente ci paga per il nostro discernimento. C’è una differenza tra quello che dice Wikipedia e il New York Times: la gente va in Wikipedia sapendo ciò che vuole; ma viene nel sito del New York Times, o della BBC, o del País senza sapere ciò che vuole sapere, viene a vedere cosa le racconta gente intelligente e ben formata, perché le racconti quello che è successo, ciò che ha importanza e il suo significato; nessuno ha tempo per fare questo per conto proprio; ci pagano per il nostro discernimento e non credo che sia arrogante prendere decisioni su ciò che è importante; nel tempo è possibile che si dimostri che ti sei sbagliato, però questo è ciò che i nostri lettori chiedono.

D.: Che cosa vi ha apportato l’iPad?

R.: Quanto più comodo e gradevole è lo schermo, tanto è più naturale leggere un articolo di un giornale serio o di una rivista. È troppo presto per dire come sarà in termini economici. Abbiamo una applicazione dell’iPad che è una prima versione, non abbiamo avuto il tempo di svilupparla al meglio. È gratuita, si chiama Editor’s choice (la scelta del direttore) ed è una selezione di storie che sono vive nella pagina web.

D.: Però state già lavorando a una applicazione a pagamento.

R.: Sì, ci stiamo lavorando. Io ho il mio iPad, la mia applicazione per iPhone e il web, e alla fine quasi sempre vado nel web, perché se si dispone di un grande schermo, il web è meraviglioso e c’è tutto; e in questo momento è ancora gratuito. Non so dove si dirige il mondo, se verso le applicazioni per le notizie o se l’iPad finirà per non aver bisogno di applicazioni perché con un buon sito web può già essere sufficiente. Ho fatto la stessa prova con la BBC, The Guardian, The Washington Post… Invece di usare la loro applicazione nell’iPad, vado al loro sito web; se è un bel sito, è meraviglioso nell’iPad.

D.: Che impatto ha l’arrivo di iPad sul suo sito web?

R.: È un’ottima domanda e, onestamente, non lo so. La gente va a sperimentare. Nelle ultime settimane abbiamo lanciato una applicazione per l’iPad che è il primo serio tentativo di una applicazione di servizi a New York, comoda per l’utente: ci sono i ristoranti preferiti dai nostri critici, i migliori bar, le liste di eventi interessanti e aggiungeremo i database dei cinema, i tour dei musei… Questo è qualcosa di distinto dalle notizie. Qualcuno è a New York e vuole sapere quale esposizione deve andare a vedere, a quale ristorante andare … Si può fare molte cose impacchettando in modo diverso porzioni del nostro pacchetto giornalistico, ma non so quale impatto avrà sul web di per sé. Offriremo tutto quello che abbiamo sul web, nell’iPad, e in entrambi i casi ci auguriamo che la gente pagherà se consumerà molto di ciò che offriamo; bisognerà vedere che cosa i lettori preferiranno.

D.: C’è un futuro per le iniziative di giornalismo senza scopo di lucro?

R.: Non ci siamo avviluppati in questa questione. Attualmente abbiamo due edizioni, una a Chicago e una a San Francisco, dove il contenuto è prodotto da consorzi senza scopo di lucro di giornalisti professionisti, persone che conosciamo e delle quali abbiamo fiducia e che sono sostenuti da persone ricche che hanno deciso di pagare per sostenere il giornalismo. Abbiamo fatto alcuni progetti con ProPublica, che sono appoggiati da filantropi… La nostra esperienza con queste organizzazioni è stata molto buona finora.

D.: Lei è solito usare una citazione: “I giornali saranno anche dinosauri, ma i dinosauri hanno camminato sulla Terra per milioni di anni”. Beh, milioni di anni, no, ma quanto tempo direbbe che dureranno?

R.: Non lo so. Fra milioni di anni sono abbastanza sicuro che il cartaceo non esisterà più. Io ho speranze non su un oggetto stampato, ma sul concetto di giornalismo aggressivo, indipendente e di alta qualità.

Titolo originale: “Yo no dejaría el destino de las noticias en manos de Google” – ENTREVISTA: EL FUTURO DEL PERIODISMO DIGITAL Bill Keller Director de ‘The New York Times’ / Trad. It.: © Fabrizio Pinna – Pieffe Edizioni

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