di Alessandro Sbarile – Lo scorso 10 maggio è uscito l’EP di esordio di “Flowers of Hiroshima”, disponibile su ITunes, Amazon, Napster e in altri digital stores. Roberto Lucido, 27 anni, albenganese, anima del progetto, disegna i contorni di questo nuovo percorso musicale; appena rientrato da Londra, dove ha vissuto per due anni esibendosi in alcuni dei locali più importanti della scena londinese (333, Underbelly, Standard Music Venue), il cantautore ingauno si esibirà il prossimo 12 agosto a Zinola alla Festa di Liberazione di Savona, mentre il 27 settembre tornerà oltremanica per esibirsi nuovamente nella capitale britannica all’Old Queen’s Head.
D.: Come nasce la sua passione per la musica?
R.: Se partiamo da quando ero bambino, ricordo che già allora avevo il desiderio di inventare le canzoni: mi ricordo che davanti specchio del bagno fingevo di cantare col pettine e inventavo cose nuove che potevano rendere l’idea di una canzone.
Questa mia passione per la musica e per comunicare e dire qualcosa attraverso la forma canzone c’è sempre stata; poi crescendo ai tempi della scuola ricordo la mia prima chitarra, una classica “marcissima” avuta a quattordici anni per 50 mila lire, lì invece è iniziato l’aspetto più musicale di questa cosa, del voler dire delle cose e non solo cantare.
Poi la cosa è proseguita ed è divenuta sempre più parte integrante della mia vita, da cui non posso prescindere, mi sono reso conto che è proprio un’esigenza.
D.: Venendo al suo nuovo progetto musicale, ha scelto questo nome – “Flowers of Hiroshima” – perché rappresenta la forza delicata che riesce a sopravvivere alla catastrofe più dura; come si ravvisa questo concetto nel suo progetto?
R.: Questa cosa si può vedere sotto differenti aspetti: arrivo da un percorso dove ero molto elettrico, dove gli arrangiamenti dei miei pezzi erano molto più rock, con più distorsioni, invece praticamente questo progetto rappresenta il percorso naturale di un’evoluzione interiore, mi sono ritrovato a spogliarmi e sono rimasto solo con la chitarra acustica ed ho iniziato a lavorare in maniera diversa.
In un progetto rock è più facile nascondere chi sei, basta alzare i decibel, distorcere i suoni e “picchiare più pesante” e si possono nascondere certe cose; nel momento in cui è nato questo progetto mi sono ritrovato a lavorare maggiormente sulla tecnica e sul controllo vocale, sugli intrecci armonici strumentali; questo mi ha portato ad essere più pulito, più preciso, più sincero con me e con chi mi ascolta, non che prima non lo cercassi ma c’era molta più timidezza, che veniva nascosta da dei cliché nei quali ti puoi sentire maggiormente a tuo agio, perché sai che sono universalmente accettati, magari per paura del giudizio.
Invece un altro aspetto riguarda un discorso più politico, sociale, interiore e spirituale, cioè il fatto che mi sto rendendo conto che atto più rivoluzionario è la ricerca dell’armonia, intesa sia musicalmente sia spiritualmente; tuttavia non rifuggo la provocazione, il dissenso, la manifestazione e denuncia del disagio. A me ha sempre affascinato di questo nome l’immagine dei primi fiori che nascevano a Hiroshima dopo l’esplosione, una cosa estremamente fragile che ha forza di rinascere quando tutto attorno è distrutto e non ha voglia di rimettersi in piedi, questo mi affascina molto perché somiglia alla mia concezione del fare musica.
D.: Cosa può dirci di questo disco e dei suoi prossimi concerti?
R.: Questo è l’EP di esordio, ho sentito la necessità e l’urgenza di questo disco, aveva bisogno di uscire; è chiaro che è un EP e lo si deve considerare quasi come un’introduzione a un progetto più ampio: in Italia sono tornato a suonare col mio violoncellista, che ho ritrovato dopo due anni ed è stata una sensazione bellissima, come se non avessimo mai smesso di suonare assieme.
In programma c’è la promozione di questo disco: ci sarà l’album di esordio probabilmente nella primavera 2011 “in full band”, ovvero non sarà più un progetto solista; l’idea della “chitarra più voce” era dettata più dall’urgenza di fare uscire questa cose.
Molti pezzi nuovi saranno in scaletta questa estate, come due cover, una della canzone partigiana di Felice Cascione “Fischia il vento”, l’altro è “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, ovviamente riarrangiato in una chiave sonora più indie e anglofona.
Il progetto resta in inglese, però ci sono queste due cover italiane, che resteranno tali e bisogna vedere se entreranno nel disco dell’anno prossimo, stiamo lavorando per metterle in scaletta nei concerti dal vivo
D.: Lei è da poco rientrato da Londra, cosa le ha dato questa esperienza? Cosa l’ha spinta a tornare?
R.: Mi ha dato tantissimo perché mi ha dato la consapevolezza di aver delle cose da dire; a livello artistico ho avuto la fortuna di suonare in posti importanti, in locali come l’Underbelly o l’Old Queen’s Head, luoghi dove hanno suonato Bob Dylan, gli Oasis e Skin. Mentre a livello personale, attraverso questa esperienza, sono cresciuto artisticamente e umanamente, ho più fiducia in me stesso. Sono ritornato perché sono partito con l’idea di restare, stanco dell’Italia, delle nostre cattive abitudini, del nostro pressapochismo e del nostro immobilismo, invece poi ho sentito il desiderio di tornare alle origini, nei posti dei mie avi. Mi sono reso conto che sono tornato con una gran voglia di fare delle cose, di contribuire a migliorare questo nostro Paese.
D.: Come ha trovato Albenga al suo ritorno dopo due anni di assenza?
R.: Tornato da Londra, sono rimasto sbalordito e indignato dal vedere quanto nel nostro paese siamo diventati più razzisti, più intolleranti e più incivili: se penso ad una cittadina come Albenga, che ha una ricchezza in termini di diversità culturale e religiosa, resto sbalordito di fronte a certe ordinanze palesemente discriminatorie; per non parlare dell’annosa problematica riguardante la moschea: mi chiedo se sia possibile ostacolare il sacrosanto diritto a professare una religione.
D’altronde sono oltre quindici anni che la Lega Nord semina odio xenofobo, paure e “incultura”; l’impressione che ho osservando queste cose è che ci sia un restringimento dei più elementari diritti umani e se oggi gli italiani si abituano ad accettare leggi così restrittive per gli immigrati, un domani sarà più facile accettarle anche su loro stessi: una volta che vengono negati dei diritti a delle minoranze sarà più semplice in futuro limitarli anche alle “maggioranze”.
D.: Dal suo punto di vista quale ruolo deve avere l’artista nella società contemporanea?
R.: Credo che l’artista abbia maggiori responsabilità di una persona comune in quanto ha una sensibilità più spiccata che lo porta a intuire, immaginare e percepire cose nuove, cose che stanno accadendo; quindi credo che il ruolo dell’artista nella nostra società sia quello di declamare la bellezza e indicare vie di pacificazione con se stessi.
Credo molto anche nel fatto che l’arte debba essere accessibile a tutti e che l’artista non sia predestinato ad esserlo; penso che ciascuno abbia le potenzialità per essere un artista.
A livello sociale credo sia molto importante che non si omologhi ma che debba schierarsi sempre, dire sempre quello che pensa anche se scomodo: non denunciare le cose sbagliate è essere complici. Fare arte e fare politica – nel senso alto del termine, dell’occuparsi della comunità – è la stessa cosa. Mi dispiace vedere molti artisti bravi e capaci che pensano soltanto al loro orticello; credo che si dovrebbe cooperare e contribuire al fine di creare una società migliore, tutti, ciascuno nel suo ruolo. Stiamo perdendo la gioia di fare le cose assieme, persi dietro a egocentrismi inutili: può sembrare un paradosso ma credo che uno dei più grandi valori per un artista sia l’umiltà, intesa anche come mettersi a servizio delle persone.