José Saramago

di Alfredo Sgarlato – L’ultimo dei grandi o uno scrittore difficile da leggere, uno spirito libero o un piantagrane, Josè Saramago era un autore che divideva pubblico e critica. Nato nel 1922, portoghese, aveva vissuto sotto la dittatura rifiutando l’esilio, ed anche dopo l’avvento della democrazia in patria non era poi così amato. Scrittore fantastico e metaforico, eppure di un realismo estremo, dallo stile lento e complesso che gli alienava molti lettori. Il Nobel ricevuto nel 1998 (secondo alcuni critici maliziosi uno dei rari casi di premio Nobel davvero meritato, secondo quelli più grocier l’ennesimo premio politico) l’aveva reso popolare anche in Italia anche per i più distratti, mentre chi scrive si era già da tempo innamorato di Memoriale dal convento, romanzo raffinato e picaresco in cui una romantica coppia di straccioni aiutava uno scienziato pazzo a costruire una macchina volante (in mezzo a mille altre avventure) o de L’anno della morte di Ricardo Reis, straordinario esercizio di metaletteratura: Ricardo Reis è uno pseudonimo di Pessoa, il grande maestro della letteratura portoghese, e Saramago gli dà vita autonoma e fattezze in suo romanzo. Meno mi avevano convinto romanzi più politici come La zattera di pietra o La caverna dove la fusione di metafora sociale e realismo assoluto nella descrizione di fatti ambienti sono meno amalgamate. Ha sorpreso, in un paese dove dopo la morte diventano santi anche i presidenti delle squadre di calcio, un articolo incredibilmente astioso da parte dell’ Osservatore Romano. Sono piccoli fatti, che passano quasi inosservati di fronte a problemi ben più grandi. Ma è grazie anche ad articoli come quello che la Gerarchia ecclesiastica ha perso la sua autorità.