Finale, Eros Achiardi: “Overlook, passione a servizio del nostro territorio” (intervista)

di Alessandro Sbarile – Eros Achiardi, trentunenne finalese, è un giovane regista con all’attivo importanti premi, come il David di Donatello nel 2007 per il cortometraggio “Relatività”; operatore e montatore, insegna Regia per diverse associazioni culturali ed è Direttore Artistico del Festival “Overlook” di Finale Ligure e “Overlook ciociaria” di Giuliano di Roma.

D.: Come è nata la sua passione per il cinema?

R.: È nata a 12-13 anni: passavo l’estate a Finale e avevo un amico che gestiva un cinema e aveva la possibilità di duplicare le videocassette, abbiamo passato l’estate al buio anziché al mare a vedere film su film, per rimediare alla noia dell’estate ligure abbiamo cominciato ad essere voraci; all’inizio non avevamo passione per un genere in particolare, eravamo onnivori. Il mio amico aveva anche una videocamera e ci divertivamo a fare filmini e interviste, dunque in quel periodo abbiamo cominciato a vedere e fare qualcosa.

La passione vera e propria è arrivata a 15 anni, quando ho visto “America oggi” una domenica pomeriggio con i miei genitori; ricordo ancora l’emozione fortissima con cui sono uscito dalla sala, mi sembrava che il cinema, usato in un certo modo, avesse le potenzialità per capire a fondo gli esseri umani e le relazioni fra loro; quel momento è stato uno spartiacque, ho iniziato a vedere i film con la volontà di approfondire e per capire di più relazioni fra gli essere umani.

Alle superiori mi compiacevo di essere “il regista” della situazione, ad esempio se per compito mi davano una ricerca la facevo filmata, e mi compiacevo di essere il punto di riferimento sui film per le assemblee e facevo dei corsi di cinema pomeridiani, che continuo ancora a fare ancora oggi.

Quindi a 17 anni, vedendo alcuni film prevedibili, dicevo “andrà avanti così”, non solo a livello di trama ma anche sui movimenti di macchina, prendendoci anche; quindi alcuni, fra cui mio padre, mi hanno detto “dovresti fare il regista” per questa capacità di visualizzare il movimento di macchina e l’immagine successiva; sempre in quel periodo mi sono fatto regalare la telecamera e da lì è nato un rapporto d’amore e di dipendenza reciproca, girando il più possibile. Ci ho messo un po’ a mettermi alla prova, un po’ perché non avevo l’ispirazione per raccontare delle storie, un po’ perché ero timoroso; mi piaceva usare la telecamera per raccontare degli aspetti non evidenti della realtà, così mi esercitavo a riprendere le persone e a capire come inquadrarle, con la telecamera mi portavo via il meglio della realtà e la vedevo più da vicino, forse non avevo una particolare curiosità ma la telecamera la accresceva, potevo spiare e capire qualcosa di più profondo e di più bello.

Dopo il liceo è venuto il momento di scegliere l’università e la scelta più scontata è stata il Dams a Bologna: mi piaceva quello che studiavo ma volevo mettermi alla prova con qualcosa di più pratico, quindi sono andato a Milano, alla Scuola civica di cinema, ed è stata una batosta perché sono arrivato lì con presunzione, invece sono stato messo di fronte ai limiti pratici e da cosa dovevo avere di fronte per essere un regista; non potevo farlo senza mettermi in discussione, dovevo riaprire gli occhi e il cuore alla curiosità più autentica.

D.: Quale spazio c’è nella nostra regione e nella nostra provincia per il cinema?

R.: In Liguria mi sembra ci siano alcune lodevoli iniziative, come il “Genova Film Festival”, che con poco è già diventato un’istituzione anche per presentare qualcosa di nuovo; però non c’è un sistema cinema che incoraggi gli aspiranti cineasti a realizzare i loro progetti con mezzi adeguati: ci sono pochi service tecnici, c’è una film commission che non lavora male ma opera da troppi pochi anni per essere un riferimento; poi ci sono nuove iniziative che non conosco ma a Genova si muove qualcosa, come un centro di aggregazione per la promozione di progetti cinematografici.

Quando faccio i cortometraggi qui, come quelli fatti con la Compagnia del Barone Rampante, mi imbatto nella difficoltà di trovare i mezzi tecnici, ad esempio i microfoni; da questo è nato il desiderio e l’esigenza di mettere su in provincia, dove c’è tanta curiosità, un centro di produzione video: è un sogno che spero di realizzare, ottenere dei finanziamenti per avere dei centri attrezzati tecnicamente in alcuni spazi del comune per premettere agli abitanti del posto di realizzare qualcosa a livello minimamente professionale.

Nel nostro piccolo nel 2006 abbiamo fatto nascere dal nulla un Festival di corti anche per generare curiosità, per dare l’occasione di fare cinema in piccolo, dal set alla recitazione: in questi quattro anni credo che abbiamo prodotto almeno una curiosità in più e la voglia di buttarsi nel cinema, anche in piccolo.

D.: A quali progetti sta lavorando?

R.: In questo periodo sto alternando dei corsi di cinema, che non sono un ripiego ma anzi mi piacciono, a dei documentari: spesso se ne avviano tanti, a volte per farne uno devo immaginarne dieci, per cui ho diversi progetti di documentari in corso, che sono partiti come autofinanziati e ora si stanno avviando a produzione; uno a cui tengo molto è sul confronto umano fra due persone che venti anni fa sono state separate da dinamiche di carattere mafioso ed è un progetto che non si sa quando avrà una fine, perché siccome non è un indagine ma il racconto su un rapporto umano, il lavoro sarà concluso quando questo rapporto darà i suoi frutti. Come documentaristi c’è la tentazione di forzare la mano per dare un senso, mentre bisognerebbe mettersi in ascolto e quando la realtà dà frutto raccoglierlo, però è difficile rispettare questa tempistica, bisogna rimanere in ascolto.

Un altro progetto di lungometraggio lo sto pensando a partire da una riflessione sul ruolo del documentarista e da tutte le domande che mi sto facendo sull’approccio al documentario e sul farne realtà filmata, questo a partire da una mia recente esperienza a New York, da cui è nato un documentario su un viaggio fatto in compagnia di un cieco: questo viaggio mi ha fatto fare delle domande e mi ha costretto a mettermi in discussione; mi piacerebbe farne un film a partire da ciò e dall’ambiguità sul ruolo del documentarista, diviso fra l’essere a servizio della realtà e il vampirismo.

D.: Per quanto concerne Overlook c’è qualche novità in cantiere?

R.: Il festival, nato quattro anni fa, verrà riproposto anche quest’anno, nonostante ci siano state delle riflessioni sul fatto che potesse valere la pena portarlo avanti, se le persone del posto ne avvertissero il bisogno; noi lo facciamo per passione e ci chiediamo come andare incontro ai desideri della gente del posto rispetto a un’iniziativa culturale come questa e, nello stesso tempo, fare delle proposte nuove e spiazzanti. Quest’anno vogliamo ampliare gli spazi dedicati ai corti di animazione ed alla contaminazione fra linguaggi, ad esempio fra documentario e animazione, per dare degli stimoli inaspettati.