…e tornarono i cantautori

di Alfredo Sgarlato – Se come me siete un uomo di mezza età che ama il rock e un giovane d’oggi vi chiede: “che musica ascolti?” dovete rispondere: rock alternativo. Lo so, è un modo di dire orribile (alternativo a cosa?), ma se non dite così ma solo rock il giovane d’oggi capisce che siete un metallaro. Che alla parola alternativo (o alternative, se siete esterofili) uno si aspetta chissà che trasgressione invece spesso si tratta di musica molto melodica, quando non addirittura di cantautori. Già, la tendenza più forte nella musica degli anni Zero è il ritorno del cantautore. Se negli anni ’90 il sottobosco americano si era popolato di figure molto depresse che si nascondevano sotto pseudonimi come Smog (Bill Callahan), Sparklehorse (Mark Linkous), Songs Ohia (Jason Molina), o i molti nickname di Will Oldham (Palace e Bonnie Prince Billy i più noti), che spesso flirtavano con le musiche di avanguardia (Ghost Tropic di Songs Ohia l’esempio migliore, ma disco non di facile ascolto), nel decennio appena trascorso appaiono sulla scena parecchi autori di musica melodica, molto curata negli arrangiamenti, ma ricca di bizzarrie.

Il nome forse più noto è quello di Antony (Hegarty), timida ragazzina nascosta nel corpo di un omaccione, dotato di una splendida voce tra Nina Simone e il Brian Ferry più melodrammatico, dopo dieci anni di anonimato nei locali notturni di New York e un primo disco “Antony and the Johnsons” pubblicato in poche decine di copie, viene invitato da Lou Reed a dettare con lui e in paio di anni raggiunge una certa notorietà. Ristampato il primo il album esce finalmente il secondo “I am a bird now” (2005), molto bello e parecchie sue canzoni sono comprese in colonne sonore (anche in “l’amico di famiglia” di Sorrentino). Il più recente “The Crying light” composto da brani lenti e con arrangiamenti orchestrali mi sembra più monotono dei precedenti.

Per qualche anno la nuova star della musica underground sembrava essere Devendra Banhart (lui si chiama davvero così). Poco più che ventenne pubblica due dischi nel giro di pochi mesi “Rejoicing the hands” e “Nino Rojo” (2004), di bellissime ballate spesso per sola voce e chitarra. Nel disco seguente “Cripple Crow” (2005) suona con una band e affronta vari stili musicali, con influenze beatlesiane e sudamericane, ma il disco alterna canzoni splendide e pasticci insopportabili. Da allora sembra essersi perso per strada.

Altro personaggio che poteva fare il botto è Sufjan Stevens, polistrumentista (suona una dozzina di strumenti e cantante) che dopo vari progetti bizzarri (alcuni dischi a tema tra cui uno elettronico dedicato all’oroscopo cinese e uno, bellissimo, “Seven Swans, di canzoni religiose per sola voce e chitarra) supera sé stesso decidendo di comporre 50 dischi, uno per ognuno degli stati americani, con testi ispirati da giornali locali. Il primo “Greetings from Michigan” passa inosservato, ma “Come on feel the Illinois” (2005), forse il disco più bello dello scorso decennio, entusiasma la stampa specializzata con una serie di canzoni perfette, con ricchi arrangiamenti, ispirato dai Cure a Philippe Glass passando per Bacharach; la più bella, Chicago, la potete sentire in vari film, tra cui “Little miss sunshine”. Ma dopo un disco di canzoni di Natale Stevens sparisce, per dichiarare non molto tempo fa che il progetto dei 50 dischi era una follia, forse non lo interessa nemmeno più fare dischi.

Simile a quella di Sufjan è la musica Andrew Bird, anche lui cantante e polistrumentista, però più intimista e più vicino a grandi degli anni ’70 come Nick Drake o Jackson Brown (nome oggi un po’ dimenticato, che torna alla memoria sentendo anche altri cantautori come David Gray o l’ultimo Jason Molina, che adesso si firma Magnolia Electric co.). Più vicina ad un cantautorato classico è la musica di Elliott Smith, morto misteriosamente (suicida o assassinato dalla fidanzata), secondo me un po’ sopravvalutato rispetto ai precedenti. Anche Elliott si sente in molte colonne sonore (se non ricordo male pure nell’ultimo Almodovar). Forse la figura più importante e tragica del nuovo cantautorato americano è quella di Vic Chesnutt, morto a Natale scorso per un overdose di farmaci e in sedia a rotelle da quando aveva vent’anni (oggi ne avrebbe 46). Benché amato da REM e Madonna non ha mai raggiunto il successo, anche perché il livello dei suoi dischi, spesso autoprodotti è alterno, ma almeno “The salesman and Bernadette”( 1998), intriso di soul e a tratti vicino al musical è da avere e i suoi dischi più recenti, soprattutto “North star deserter “(2008) sono tutti validi. E poi ci sarebbero le cantautrici, ma lo spazio è tiranno sarà per la prossima puntata…

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato