Cinema 2009: bilancio e prospettive

di Alfredo Sgarlato – Quali tendenze ha mostrato il mondo del cinema nel 2009, un anno ricco, come tutto il decennio, di opere di alto livello?

Nel cinema americano e inglese appare una voglia di tornare alle radici. Che in quel mondo significa ritorno agli anni ’60, a Woodstock (vedi il film di Ang Lee), alla cultura “liberal”. Dal magno Clint Eastwood che prosegue la sua opera di demolizione dei falsi miti neocon firmando con “Gran Torino” una delle sue opere più commoventi all’irresistibile “I love radio rock”, pieno di musica, sesso libero e bellissime ragazze con look strepitosi, fino ad “Avatar”, dove James Cameron riscrive “Soldato Blu” e “Apocalypse now” passando per le copertine dei dischi firmate Roger Dean, a “Two lovers” che fa pensare al primo Scorsese, allo scanzonato musical “Mamma Mia”a gli incontenibili fratelli Cohen con “A serious man”a “Milk di Gus Van Sant con un grande Sean Penn.

Salutando il ritorno dei grandi vecchi Ken Loach e Woody Allen alla loro forma migliore (“Il mio amico Eric” e “Basta che funzioni”), rimane l’autore che più di ogni altro fa storia a sé, ossia Quentin Tarantino. Storia detto non a caso, poiché stavolta QT nel suo universo fatto di solo cinema fa entrare anche la Storia con la maiuscola, con risultati, diciamolo, superiori all’originale.

Il cinema italiano che fa? L’opera migliore viene da un grande vecchio, lo straordinario “Vincere” di Marco Bellocchio, ingiustamente ignorato a Cannes. Uno dei pochi film italiani realmente antifascisti, insieme ad Amarcord, perché mostra la cialtroneria del regime e dell’uomo Mussolini, narrato con stile epico e futurista. Alla tendenza americana possiamo assimilare due film rivelazione: il basagliano “Si può fare” di Giulio Manfredonia e il gayo “Diverso da chi?” di Umberto Riccioni Carteni entrambi scritti da Fabio Bonifacci (Tandem, Notturno bus), il più promettente sceneggiatore italiano. Tra molte valide opere prime che faticano ad essere distribuite decentemente ci piace segnalare “La doppia ora” di Giuseppe Capotondi, raro (per l’Italia) esempio di psicothriller in piena regola.

E il cinema francese? Difficile dare un discorso d’insieme, poiché dalla Francia ormai ci arriva poco e molto opere importanti (“Lourdes”, “Un profeta”) arrivano in Italia in ritardo. Di quello che abbiamo visto ci ha colpito la narrazione della famiglia, disfunzionale, allargata, reinventata, come nei bellissimi “Stella” di Sylvie Verheyde, “Racconto di Natale” di Arnaud Desplechin, Welcome di Philippr Loriet , e in “Ti ho sempre amata” di Philippe Claudel, “Il matrimonio di Lorna” dei fratelli Dardenne (finalmente hanno fatto un film vedibile) fino al magnifico “Questione di punti di vista” dove Jacques Rivette mescola cinema, teatro, psicoanalisi, mito e circo con la leggerezza che solo un amico di Rohmer può avere.

Notando il momento di stasi del cinema orientale e l’esplosione di quello israeliano (recuperate il gioiellino “Meduse” di Etgar Keret) chiudiamo coi film vincitori dei due principali festival. “Il nastro bianco” di Michael Haneke (Cannes) è un film inquietante e formalmente splendido ma che ci pone un dilemma morale: Haneke è un regista crudele e che si compiace della sua crudeltà. In cosa allora è diverso da un, mettiamo, Mario Giordano? Anzi, poiché la sua opera è bella da vedere, non è persino più immorale? Lebanon di Samuel Maoz (Venezia) è un film geniale nel suo approccio visivo ma troppo vero per essere bello.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato