Teatro Carlo Felice di Genova: intervista a Giuseppe Ferrazza

di Lucia Deborah – La incontriamo principalmente in qualità di Commissario straordinario del teatro Carlo Felice di Genova, ma non possiamo trascurare le sue esperienze nella ricerca e studio nel settore dello Spettacolo e in qualità di presidente attuale dell’ETI. Fatta questa premessa partiremmo dalla sua carica più dibattuta.

D: È dall’estate 2008 il commissario straordinario del teatro lirico genovese. Una richiesta partita dagli stessi enti locali soci fondatori della fondazione. Ora il suo mandato è stato rinnovato tra numerose polemiche. Evitando assolutamente politicismi, ci racconta in sintesi il suo lavoro a partire dallo scorso anno? Quale è stato il motivo del commissariamento e cosa è cambiato?

R: Il teatro Carlo Felice fu commissariato per vari motivi: principalmente per una litigiosità interna che non permetteva l’ordinario svolgimento delle attività artistiche, in primis gli scioperi continui. C’era necessità di un pugno forte, scacciando anche il tarlo della politica, che invece rientra puramente in un discorso di consenso. Poi sono intervenuti altri fattori. Primo in testa, il caso dei fondi pensione, accesa proprio a ridosso del mio commissariamento. Una situazione che ha fatto rischiare la chiusura della fondazione teatro, considerando le cause pendenti, per un debito sull’anno 2008 di oltre 10 milioni di euro. L’operazione che abbiamo condotto con grande fatica e con l’aiuto indispensabile degli enti locali, è consistita nell’avviamento di un tipo di transazione e di accordo con gli aventi diritto al fondo (ndr. Fondo di previdenza integrativa a favore dell’Ente Autonomo Teatro dell’Opera di Genova) per transare sulla base di 6 milioni di euro. Abbiamo così raccolto l’adesione definitiva del 97% degli aventi diritto al risarcimento. Soluzione che a nostro avviso significa una conclusione di questo capitolo. Sulla base di questo accordo, comune e regione dovrebbero versare alla fondazione i 6 milioni di euro che a nostra volta verseremo al fondo, per consentire la ripartizione. A questo aggiungiamo che, al momento del mio arrivo, c’era una programmazione già stabilita (per la stagione 2008/09) che portava, per un’attività fino a giugno, una “scopertura” pari a 5milioni e 700 mila euro. Aggiungendola ai tagli la situazione si è rivelata critica.

Poi la situazione del Carlo Felice è molto particolare. Fino al 1990 operava al teatro Margherita, con personale molto ridotto e non a tempo pieno. Quando allora vigeva la consuetudine di una ripartizione dei fondi statali secondo le medie storiche, il Carlo Felice è stato sempre sacrificato. A riapertura del teatro, (più grandi dimensioni e struttura, con 2100 posti quasi come La Scala) la gestione è diventata complicata, richiedendo investimenti massicci, che non sono mai arrivati, avendo sempre vissuto con contributi straordinari.

Negli ultimi anni 2007-2008 è stato erogato un fondo straordinario proveniente dalle ex colombiane, pari a 10 milioni di euro che è venuto a mancare sul bilancio 2009. Considerando quindi tagli e contributi straordinari mancanti, pari a circa 7 milioni di euro, rispetto all’anno precedente, è derivata una programmazione senza appoggio finanziario.

Fatto il quadro, le strade da percorrere sono state due: o far indebitare il teatro – e credo che un commissario non possa farlo -, o rivedere tutti i modelli produttivi e rinegoziare a ribasso tutti i contratti esistenti. Cosa che è stata fatta, facendo slittare alcune opere, non mutando però il numero delle recite. Ricorrendo chiaramente anche a produzioni a basso costo, operando verso la strada del ricambio generazionale, con una risposta del pubblico oltretutto ottima. Siamo arrivati al tutto esaurito, come per il Rigoletto, ora in teatro.

La cosa che sta dando molta soddisfazione è l’affluenza di un pubblico giovane – circa 7mila giovani nell’anno – grazie anche ad un lavoro con le scuole, in accordo con i presidi, recuperando la funzione sociale che i teatri pubblici dovrebbero avere. La difficoltà della gestione dipende sicuramente dalla disponibilità economica consistente, che però è la città che deve fornire, tra enti locali e pubblico. Io ho il compito di riconsegnare un teatro ricondotto alla normalità.

D: Il motivo della decisione del rinnovo del commissariamento di qualche giorno fa?

R: Come era logico, ho presentato una relazione al dirigente dello dipartimento dello Spettacolo del MiBAC. Il bilancio 2008 aveva 10 milioni di deficit, e faticosamente stiamo cercando il pareggio nel 2009. Ora, facendo una proiezione delle risorse finanziare, nel 2010 possiamo pagare gli stipendi ma non abbiamo le risorse per pagare extra. L’attività va basata su incassi, entrate particolari, e su una programmazione impostata all’economicità.

Poi il ministro, sulla base di una relazione che gli è stata presentata dalla commissione generale dello spettacolo, ha deciso di prorogare il commissariamento. La decisione è spettata al ministero. A mio avviso comunque non c’erano estremi alcuni perché il teatro tornasse alla normalità.

D: Allo stato attuale quale finanziamenti riceve il teatro?

R: Il Comune 2 milioni e 600mila, la Regione 1 milione, e la Provincia 100mila euro. Poi i fondi statali e i privati per un totale di 15 milioni. Purtroppo anche i privati hanno diminuito l’impegno finanziario. Il dato inconfutabile è che a minor flusso del pubblico segue minor flusso di finanziamenti privati. Aggiungiamo la crisi economica e la situazione particolare della città di Genova, con un calo demografico spaventoso, che negli ultimi dieci anni ha perso circa il 30% degli abitanti. E la crisi economia abbattutasi sulla città con la scomparsa delle grandi aziende di stato. E aggiungerei che, purtroppo – e vale per tutte le fondazioni -, la cattiva nomea delle fondazioni liriche non agevola i privati ad intervenire.

D: A proposito di fondazioni liriche. Bondi ha annunciato a breve una riforma. Che ne pensa?

R: Bondi stesso, tempo fa, ha espresso la necessità della riforma, pena la chiusura di numerose fondazioni liriche. Io farei una precisazione: è in corso la discussione di un decreto legge, per risolvere problemi “di vita o di morte”, considerando i tempi lunghi della legislatura italiana, ci vorrebbe troppo tempo per una riforma.

Elemento fondamentale sono i contratti di lavoro, per non consentire più dispendi di energie e risorse enormi (che in molti casi non sono neanche contratti formali ma consuetudini). Inoltre c’è l’altro aspetto produttivo, che non tutti possono permettersi economicamente di mandare in scena le stesse opere. A fronte di minori risorse non si può pretendere pari programmazione.

Sono convinto che il problema non è dello Stato. La differenza la fanno, e devono farla, gli enti locali. La soluzione è cambiare, e offrire qualcosa di nuovo. Cosa che porterebbe anche un vento di novità. Faccio un esempio assurdo. In Emilia Romagna mettono in scena la stessa opera in tre teatri diversi e molto vicini, anche con produzioni diverse e conseguenti spese sostanziose. Queste sono scelte non condivisibili, che però dipendono molto dagli enti locali. Spesso accade che per consenso esigano una particolare programmazione. Pensando ad una ipotetica riforma Bondi, lo Stato dovrebbe intervenire sulla base di una pianta organica uguale per tutti e del contratto collettivo nazionale. Unica differenza la farebbe la presenza del corpo di ballo. Le differenze vere le fanno gli enti locali. Contratto intergrativo, numeri di recite, livelli produttivi: tutto riguarda gli enti locali. Non capisco perché un cittadino di Cosenza debba pagare il biglietto agli spettatori della Scala.

D: Un po’ di federalismo nella cultura? In fondo anche gli enti locali sono lo Stato. Si tratta solo di una diversa ripartizione…

R: Sono convito che il federalismo agevoli il sud e non il nord, prima di tutto, e che lo Stato centrale si deve occupare delle infrastrutture. Il controllo del territorio invece è nelle mani dell’ente locale che si assume la responsabilità di dare fondi ad un teatro e non ad un altro. Sono scelte legate alle politiche locali, non riguardano lo Stato. E credo che il teatro della Basilicata spenda anche meno soldi per mantenersi, e sia tutto proporzionato.

D: A proposito della riforma delle fondazioni liriche annunciata dal ministro Bondi a breve, le chiedo una riflessione su cosa è cambiato dalla riforma Veltroni, che ha trasformato i teatri lirici in fondazioni.

R: Niente. L’ingresso dei privati non è avvenuto come sperato, o meglio, inizialmente sono entrati ora si stanno ritraendo. Nulla è cambiato nei rapporti di lavoro, né nella gestione. Io vedevo molto più giusta la riforma Dini, del ‘94, che costringeva il privato ad entrare per evitare la chiusura del teatro.

D: Chi dovrebbe interagire con il privato? Il sovrintendente?

R: È l’ente locale che cattura i privati. Il sovrintendente non è una figura professionale adatta alla ricerca di fondi. Finmeccanica nel Carlo Felice è entrata grazie all’intervento degli Enti locali, non per l’uomo del teatro. Il privato non investe nella cultura italiana perché è il modello che è sbagliato. Adesso decide lo Stato, il privato mette i soldi. Il caso del Metropolitan di New York è esemplare. I privati lo hanno chiuso per un anno e lo hanno riaperto, per loro volontà, cambiando però la gestione. In Italia c’è troppo statalismo, lo Stato non può occuparsi di tutto.

D: Tornando al Carlo Felice. Appena rinnovato il commissariamento è scoppiata una polemica che riguarda i suoi collaboratori. Il direttore artistico Cristina Ferrari è stata sostituita. Prima la proposta di Giorgio Battistelli (che ha rinunciato), poi si è fatto il nome di Vincenzo De Vivo. Perché la scelta di cambiare? Guidata da obiettivi di gestione o di malfunzionamento nella gestione precedente?

R: Preciso che è stata una scelta di non rinnovare il contratto, non è stata mandata via. Secondo era necessaria una professionalità diversa, secondo la mia visione del teatro Carlo Felice. Tra l’altro ho ingaggiato un consulente artistico e non un direttore, con un risparmio assoluto. La rinuncia di Battistelli è stata una grossa perdita per Genova, ma De Vivo è una professionalità altrettanto all’altezza del compito. Vorrei sottolineare una cosa però: le mie scelte non sono state dettate da nessuna indicazione politica. In un anno ho agito sempre libero da pressione, sempre e solo liberamente, né del governo né degli enti locali. E comunque è bene precisare che il commissariamento finirà solo quando ci saranno le condizioni per ripristinare un Cda. Le condizioni sono: chiudere bilancio consultivo in pareggio, risolvere il problema del fondo, e trovare risorse finanziarie per il 2010. La normalità è questa.

D: Parliamo del futuro del Carlo Felice. Quali scelte sono state operate? Ci dia qualche anticipazione sulla stagione…

R: L’obiettivo è farlo funzionare a pieno regime. Un teatro di 2100 posti per 600mila abitanti che va riconsegnato alla città. Per prima cosa, pubblici diversi e non ricorrere sempre al pubblico tradizionale, facendo ritornare l’opera uno spettacolo popolare. Noi cerchiamo di farlo a partire dal Carlo Felice. Secondo, dobbiamo ricorrere al repertorio. Stiamo valutando una serie di titoli, fatti a debita distanza di tempo qui a Genova. Inoltre bisogna fare molte valutazioni sugli allestimenti: il teatro non ha un laboratorio scenotecnico e, quindi, non può costruire in proprio le scenografie e si deve ricorrere agli allestimenti giacenti in altri teatri. Proprio per questo ho chiamato anche un nuovo direttore agli allestimenti scenici. L’architetto Stefano Pace è stato scelto non solo perché ha un curriculum invidiabile per le numerose esperienze in Francia, fino all’ultima al teatro di Calatrava di Valencia, ma anche perché è una professionalità che ci consente di individuare molte scenografie che possono fare al nostro caso.

Infine, la proposta di un cambio generazionale. Forse c’è bisogno di aprire il mercato, anche per un ricambio generazionale del pubblico.

Per la stagione artistica, la mia idea è la contaminazione di generi e di pubblico, ma che rimanga teatro musicale, non altro. Stavamo pensando di proporre la prima e l’ultima Tosca, la prima di Puccini e l’ultima di Dalla, magari a giorni alterni. Ho appena chiesto a Piovani l’Orchestrazione per grande orchestra della sua Concha Bonita. Stiamo ragionando su una coproduzione con il San Carlo di Napoli dell’Opera da tre soldi di Massimo Ranieri, e quasi certamente ospiteremo il Flauto Magico visto dall’Orchestra di Piazza Vittorio. Tutto questo non in sostituzione, ma in più, per far sì che il teatro sia aperto il più possibile, che si rivolga a fasce di pubblico più o meno eterogenee. Per fare questo penso anche ad operazioni di co-marketing con altri teatri. A mio avviso è un modo per far vivere il teatro di più spendendo poco, e come mi auguro a costo quasi a zero.

Vorremmo fare Lucia di Lammermoor, Simon Boccanegra, titoli compatibili con nostri mezzi e allestimenti in programmazione. Il prossimo anno faranno tutti il Nabucco per i 150 anni dell’Unità di Italia? Noi pensavamo di farlo prima, un anno prima.

Cerchiamo inoltre di lavorare in regime di economicità, perché siamo arrivati ad alcuni eccessi. Ci sono registi strapagati per un mese di lavoro. Oppure sarebbero utili le coproduzioni, ma che siano reali. Una scelta comune e non banale rapporto finanziario, con una condivisione di spese. Le produzione devono essere pensate prima ed insieme, considerando che agiamo su palcoscenici completamente diversi. Altrimenti uno fa la produzione e poi la noleggia. Inoltre le scelte non dovrebbero ruotare in base alla disponibilità del tal cantante ma in base alle scelte artistiche, anche sperimentando il lavoro di professionisti sconosciuti.

D: Il discorso del ricambio generazionale è molto interessante. Ma la sensibilità del pubblico giovane non dipende solo dalla programmazione del singolo teatro…

R: Invece no, è assolutamente così. Se i soldi dei teatri spesi in cachet venissero spesi in formazione del pubblico, le sale sarebbero piene. Le faccio l’esempio della rassegna del teatro di prosa in italiano a Berlino, che sta per iniziare. Provi a fare una cosa del genere in Italia! Qui nessuno fa formazione perché è più facile proporre un cartellone con nomi altisonanti per attratte pubblico. Infatti, essendoci fondi pubblici, si paga profumatamente gli artisti anche in maniera ingiustificata. Si predilige la cultura dell’evento a quella di lungo periodo.

Sa qual è la differenza tra Roma e Berlino? Tre milioni di abitanti entrambe, solo che nella capitale tedesca il pubblico è di 2 milioni di persone, a Roma di 100 mila. È chiaro che dovremmo prevedere delle politiche culturali, ma se ogni teatro operasse scelte di formazione del pubblico qualcosa inizierebbe a cambiare e qualche piccolo risultato lo otterremmo. Faccio l’esempio di Roma, perché la conosco bene. Roma è una città che ospita la cultura ma che non la produce. Quali sono i soggetti che producono cultura a Roma? L’Auditorium la ospita, è utile certo, ma occorre dare spazio agli artisti che operano nella città attraverso la propria Istituzione culturale.

I teatri sono pieni da noi solo quando si propone un evento, che spesso è “televisivo”. E purtroppo una buona mano la danno gli enti locali che scelgono di strapagare spettacoli teatrali che non hanno niente a che fare con la cultura.

* L’intervista è ripresa da www.tafter.it