Ossessioni contemporanee: il cibo

di Alfredo Sgarlato – Tempo fa sono stato ad una mostra fotografica, in cui veniva presentato il lavoro di uno dei maggiori fotografi mondiali di cibo, anzi, food come bisogna dire oggi che è obbligatorio parlare inglese, anche da parte di quelli che gridano “prima gli italiani”. Sono fuggito quasi subito, anche per l’antipatia che comunicava l’autore, ma soprattutto per la mancanza di interesse verso l’argomento, pensando: bei tempi quando i fotografi ritraevavano donne nude. Già, perché non è più il sesso ma il cibo l’ossessione dominante.

Il luogo comune dice che si parla di ciò che non si fa: ricordo come anni fa i programmi tv parlassero soprattutto di sesso, Costanzo show in primis, poi di amore, oggi in tv domina la cucina. Che oggi la gente non cucini è un dato di fatto; la maggior parte degli umani o lavora troppo e guadagna poco, o lavora poco e guadagna niente, e quindi cucinare, e mangiare bene, sono utopie. Sesso e amore non credo siano passati di moda; semplicemente non fa più trasgressivo o commovente parlarne. A differenza dell’epoca di Freud non sono le problematiche sessuali a portare nello studio dell’analista, ma quelle amorose. Il potenziale cliente è spesso una persona che non si sente amata, soprattutto dalla mamma. Interessante però come le patologie psichiche sono sempre più spesso agite come condotte alimentari devianti: anoressia, bulimia, abbuffate compulsive.

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Colleghi ben più illustri di me spiegano come i disturbi legati al cibo, anoressia in primis, autentico disturbo etnico della società abbiente, mentre in passato avevano un preciso valore simbolico, legato alla femminilità, alla figura materna, al ruolo sociale, oggi sono puro sintomo, espressione di qualsiasi tipo di malessere psichico, e di un’umanità che, come direbbe il grande psicoanalista Masud Khan, non “erotizza il pensiero”, ha perso la funzione simbolica, e trasferisce sul corpo la sofferenza mentale. Corpo che si vorrebbe perfetto, secondo i dettami di un immaginario sempre più schiavo del principio di prestazione, e spesso negato, ferito, modificato chirurgicamente, sottoposto a fallimentari diete miracolistiche.

In questo scenario appaiono i cuochi, gli chef, a cui viene demandato il ruolo di sapienti, di figure leader, che spiegano, o giudicano, piatti che non mangeremo mai, perchè troppo difficili da cucinare o proposti da ristoranti troppo cari. I più simpatici, o antipatici, hanno ancora più successo, il successo dà il diritto di parola (perché oggi uno vale uno, ma se non pensi come il popolo allora sei un professorone corrotto membro della kasta, ma se sei ricco e famoso allora al popolo piaci e puoi parlare) e puoi, come Chef Rubio, sbeffeggiare i potenti via twitter, affondando peraltro bersagli molto facili.

Nel frattempo i cuochi famosi danno il loro contributo all’imbarbarimento della lingua coniando strani neologismi che poi impazzano sui social e diventano di uso comune. Le tv offrono programmi di cucina e sfide tra ristoranti a tutte le ore. Alcune sono anche divertenti da vedere, quando svelano tra i concorrenti cattiverie terribili, pur lasciando il dubbio, ormai lecito in qualsiasi forma di intrattenimento, telegiornali compresi, di quanto sia reale e quanto creato ad arte. Viviamo in un’epoca storica in cui la fame di verità e il culto del leader si fondono col problema atavico della nazione, la fame vera, mascherata da riscoperta delle tradizioni e ossessione per il cibo sano. C’è voglia di leader, di figure forti, e in mancanza d’altro gli chef funzionano. Godiamoci i cuochi in tv, o evitiamoli come la peste, a seconda dei gusti, in attesa della prossima ossessione mediatica.