Dino Mantovani: La burocrazia

"Non è dunque a dire che la burocrazia sia un male. Il vero è ch’essa soffre di molti mali. E allora, invece di scherni e invettive, bisognerebbe adoperare rimedi atti a sanarla: cosa difficilissima, perché ogni paese ha l’amministrazione che sa organizzare; e i difetti della burocrazia sono difetti di noi stessi, della nazione e della sua imperfetta disciplina civile"

documenti incartamenti

Per dare qualche straordinaria soddisfazione alle collere ricorrenti del «cittadino che protesta», un giornale parigino dei più diffusi ha inventato un personaggio rappresentativo, Monsieur Lebureau, essere ottuso, gretto, negligente, formalista e consuetudinario come un cinese, tardo e impacciato come una macchina arrugginita, grottesco nella sua burbanza, pernicioso nella sua impassibilità; e sopra il suo capo, tradizionalmente coperto dalla ridicola papalina col fiocco, scarica ogni mattina le doglianze irose della gente esasperata contro gli uffici d’amministrazione pubblica, i quali si mostrano insufficienti al compito loro e ai fini sociali per cui sono costituiti e spesati. Ma il signor Lebureau non è soltanto francese, è di tutti i paesi civili; e in tutti i paesi, col continuo crescere delle attribuzioni democraticamente assegnate allo Stato, è fatto segno all’ira universale. Scherni e disdegni, satire, oltraggi, sospetti: non altro dispensa l’opinione pubblica alla burocrazia, solo che ne oda pronunziare il nome.


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Sembra che tutti vogliano vendicarsi della sciagurata perché non possono farne senza. Non altrimenti discorrono le padrone delle lor cuoche e cameriere, persone, come ognun sa, insopportabili. Non altrimenti l’incantevole signor Pultini, nel Piccolo mondo antico del Fogazzaro, impreca sempre contro la sua maledettissima servente, la perfida, la fatal servente; ma quando gli chiedono perché non la manda via, se è persuaso che abbia ad essere la sua morte, non sa rispondere altro che : «Questo xe quelo!».

Questo è il punto: farne senza! Invece, dovunque e sempre che ci siano affari da trattare, la prima cosa che si fa è istituire un ufficio con impiegati, protocolli, registri e regolamenti, burocrazia; appunto come le famiglie, che si lagnano tanto delle persone di servizio, ne tengono quante più possono, e più montano in alto, più ne vogliono pigliare; sebbene sia nella coscienza di tutti che le noie crescon col numero, e che il padrone finisce con l’essere il servitore degli «imi che comandano ai potenti». Questo appunto significa la parola burocrazia: prevalenza sociale effettiva degli uffici di amministrazione, col loro meccanismo secco, estraneo e quasi avverso alla mutevole varietà degli interessi pubblici e privati che governano per conto del Governo: il quale senza gli uffici stessi, senza la burocrazia, non sarebbe altro che un nome, o sarebbe un pericolo pazzo, una tirannia inconcepibile. Mutano e cadono i governi, ma la burocrazia resta, indispensabile e onorevole tutrice degli interessi di tutti. Può la politica, motore instabilissimo, fare tutte le pazzie che sappiamo, dar di volta, fermarsi di schianto o rotolare a precipizio; ma dove la macchina burocratica è solidamente congegnata, bastano le resistenze delle sue molle, basta il gioco serrato delle sue leve e de’ suoi addentellati perché di sotto, nel popolo che subisce e paga, non si risentano i turbamenti di sopra, e le faccende degli individui e delle famiglie continuino pure il loro gioco vitale, perché insomma una regola del vivere sussista anche là dove la politica sgoverni. I francesi che menano cosi grossa quotidiana guerra a Monsieur Lebureau dimenticano troppo facilmente le benemerenze di questo signore, la cui umile papalina è pure da oltre un secolo il più valido schermo dei loro ottimi affari contro il furioso disordine di gigli, aquile e berretti rossi: emblemi più fulgidi, ma emblemi di turbamento e di pericolo, mentre la papalina e la ciambella sono emblemi di stabilità e di sicurezza, sole cose necessarie all’immensa maggioranza dei privati cittadini, estranei alle agitazioni dei politicanti.

Si fa presto a dileggiare le «emarginate pratiche»; ma di solito quelli che più ne sparlano e ridono son proprio quelli che meno sanno cosa sia un’amministrazione responsabile, un ufficio bene ordinato. Qualunque esso sia, deve attendere essenzialmente a tre cose: l’applicazione delle leggi, secondo i regolamenti esecutivi; la registrazione de’ suoi atti; la corrispondenza con gli altri uffici. Questo triplice lavoro è di sua natura formalistico e rituale. Se l’archivio e il protocollo non sono tenuti con un determinato ordine fisso, non ci si raccapezza più; e chi ne va di mezzo sono in fin de’ conti gli interessi dei cittadini, anche di quelli che si fanno più gustose beffe delle apparenti superfluità e pedanterie burocratiche, ma sono poi i primi a strepitare se non trovano le carte delle loro pratiche in regola. E per servire debitamente gli interessi privati e i pubblici, bisogna proprio che la burocrazia sia burocrazia e nient’altro, cioè esecuzione esatta e impassibile dei regolamenti: non ingegno né sapienza e nemmeno buon senso, perché queste sono doti individuali, che possono riuscire tanto pericolose quanto vantaggiose. Chi dirige un ufficio deve aver terrore di un impiegato che vuole far di suo capo, secondo il suo criterio: chi garantisce che quel capo sia pieno di saggezza, che quel criterio sia giusto e dritto? Il buon senso è molto meno comune di quel che si creda; e troppo spesso servirebbe di pretesto al disordine e sopra tutto all’arbitrio. Per dieci sciocchezze che si possono imputare alla burocrazia, ognuno di noi conosce cento ingiustizie che i governanti commetterebbero tutti i giorni se non ci fosse la burocrazia col suo provvido pedantesco formalismo regolamentare. È, come sempre, questione di punto di vista. Provi un po’ il «cittadino che protesta» ad assumere la responsabilità di un ufficio amministrativo; e imparerà a ridere di se stesso, e a rispettare invece il meccanismo burocratico, che, come tutti i meccanismi, ha nella sua rigidezza la sola garanzia di regolarità di una funzione necessaria.

Non è dunque a dire che la burocrazia sia un male. Il vero è ch’essa soffre di molti mali. E allora, invece di scherni e invettive, bisognerebbe adoperare rimedi atti a sanarla: cosa difficilissima, perché ogni paese ha l’amministrazione che sa organizzare; e i difetti della burocrazia sono difetti di noi stessi, della nazione e della sua imperfetta disciplina civile. Il male più grave è l’eccessiva complessità e suddivisione degli uffici: onde lentezza e pesantezza di funzioni, ingombro di scritturazione superflua, perditempo e disseminazione di responsabilità. Ci vorrebbe un sistema più semplice di uffici e un minor numero di impiegati, con miglior trattamento e maggior carico di doveri personali. Ma a un tale sistema si oppongono fra noi due forze che non paiono superabili. L’una è la tendenza democratica a moltiplicare le attribuzioni dei poteri pubblici e gli impieghi di carriera, a cui aspira un’infinità di cittadini tradizionalmente alieni o per mediocrità morale esclusi dal lavoro libero e avventuroso. L’altra è lo spirito animatore e direttore di tutta quanta l’amministrazione italiana: che è lo spirito di diffidenza, la presunzione legale della disobbedienza d’ogni funzionario e d’ogni cittadino al suo dovere. Per ciò l’applicazione di ogni legge è gravata da un carico incredibile di controlli, che si esercitano tra gli uffici, da un grado all’altro, con immensa spesa di tempo e di lavoro. Ogni Ministero in Italia tratta costantemente i suoi dipendenti come sospetti, ed essi trattano i dipendenti loro come imputati. Ciascun ufficio deve non soltanto compiere le sue funzioni, ma giustificarsi, atto per atto, presso l’ufficio superiore. Quando il Governo manda a’ suoi ufficiali un ordine da eseguire, lo accompagna sempre con l’intimazione di dimostrare ch’esso sia stato bene eseguito e con la minaccia del castigo per ogni mancamento. Nessuno si affida a nessuno. Il tono ordinario della corrispondenza ufficiale è dall’alto quello del corruccio, dal basso quello della discolpa. E la scritturazione e la documentazione per ogni minima pratica formano smisurati cumuli di carta, in cui si spreca per amor dell’ordine interno la metà almeno del lavoro utile, che dovrebbe invece versarsi di fuori, nell’azione amministrativa effettuale.

Avviene insomma nella burocrazia quel medesimo processo d’inversione e di complicazione che interviene in ogni umana attività che tenda a perfezionarsi: non solo nel lavoro sistemato e metodico, ma persino in quello geniale dell’arte, la quale, quanto più si studia, tanto più inclina alla ricerca del suo affinamento interiore, della sua perfezione tecnica, dimenticando per amore dei mezzi il suo fine supremo, che è quello della comunicazione esterna. Così gli ordinamenti scolastici, militari e giudiziari, a forza di cercare ogni soddisfazione nel perfezionamento della loro disciplina intrinseca, minacciano di diventare fine a se stessi, perdendo la veduta dell’utilità sociale per cui son fatti.

Vi sono in tutte le amministrazioni impiegati negligenti e scansafatiche, a cui la stabilità del posto, col diritto agli avanzamenti automatici e alla pensione, toglie ogni stimolo d’amor proprio, ogni disposizione all’operosità. Vegetano inerti, facendo senza cura il meno possibile, e intronano il mondo di lamentazioni tanto più importune quanto più scarso è il loro merito. Di costoro il mondo s’infastidisce, e ha ragione; ma avrebbe torto se coi queruli disutili mettesse insieme nella sua stima tutti gli impiegali. Ci sono nella burocrazia anche i valorosi austeri, ci sono i martiri, gli asceti e gli eroi. È vero che di solito è l’uomo quello che fa l’ufficio e ne determina il valore; ma non è meno vero che molte volte l’ufficio fa l’uomo, fa di lui un altro uomo, svegliando nella sua complessione morali attitudini latenti, virtù che la carriera educa da sola. Spesso il subalterno svogliato diventa un capo alacre. Basta una promozione, col sentimento della responsabilità inerente al comando, per accrescere a dismisura il valore di taluni uomini che senza quest’impulso rimarrebbero oscuri a sé e agli altri.

Si crea nella burocrazia, come nell’insegnamento, nella milizia, nella magistratura, nella polizia, e persino nelle aziende fiscali, una coscienza professionale capace di esaltarsi fino alla passione e di contrapporsi e sovrapporsi alla coscienza individuale. Si trovano in tutti i dicasteri impiegati maravigliosi, a cui l’ufficio è vita, ideale, amore unico; amore che compie prodigi d’abnegazione quasi inconsapevole e che segrega letteralmente l’uomo dall’ordinario sentire de’ suoi simili. Il buon ordine e il buon esito delle pratiche sono per lui una vera felicità, il culto del regolamento una vera religione. E, come tutti i cercatori di perfezione, egli riesce terribile agli altri, massime ai superiori, che per il suo alto sentimento della gerarchia vorrebbe superiori davvero, perfetti anch’essi come egli intende. Anche per ciò il principe di Talleyrand vietava agli impiegati il soverchio zelo, che può trasmodare in arbitrio, e dà soggezione ai capi.

Ridere di queste cose non è giusto, perché non è vero che lo spirito burocratico sia per se stesso un segno di nullità o di pochezza. È un amore dell’ordine formale, un istinto di conservazione, di cautela e di disciplina, che negli uffici trova le condizioni più adatte al suo sviluppo, ma che può incontrarsi in persone di qualunque stato: principi, milionari, uomini di scienza, di lettere o d’affari, financo artisti e poeti. Conosco studiosi la cui più delicata compiacenza sta nell’eseguire a puntino la schedatura del materiale bibliografico e delle citazioni. Conosco dei signori, che, per bisogno innato di registrare e catalogare, tengono il protocollo della loro corrispondenza privata e gli elenchi sistematici dei natalizi, degli onomastici, degli anniversari funebri, dei cambiamenti d’indirizzo, e simili.

Vi sono temperamenti naturalmente sudditi, nati alle funzioni subalterne e al bisogno di sentirsi governati in ogni loro atto; e vi sono temperamenti imperiosi e legislativi, che hanno invece bisogno di regolamentare e disciplinare gli altri con un ordine stabilito, al quale sono contenti che si obbedisca più che alla loro volontà occasionale: come quel ministro francese dell’istruzione, che si beava all’idea di poter decretare programmi d’insegnamento così metodici che in tutte quante le scuole, in uno stesso giorno, alla stessa ora, si facesse la stessa lezione. Questa mania burocratica non è propria del paesi militareschi, di spirito autoritario, ma anche e forse più della democrazia, la quale tende a livellare gli uomini e le loro attività, a sopprimere ogni indipendenza o autonomia, che è un segno o un pericolo d’ineguaglianza. Certi socialisti, se potessero, farebbero svegliare e addormentare gli uomini a ore fisse, e in quel mezzo stabilirebbero una per una le loro azioni, con regolamenti, registri e controlli.

Queste sono caricature. Ma badiamo bene: la tendenza c’è, e mollo più in basso che in alto; mentre la burocrazia deve stare nel giusto mezzo, tra chi governa e chi è governato. Se essa esorbita, troppo grave è il pericolo per tutti, e non pochi scrittori di politica l’hanno già segnalato nel mondo moderno. Torno da capo: l’opinione comune si fa beffe dei burocratici, ma questi avrebbero assai più ragione di farsi beffe dell’opinione comune, perché essi sono gli indispensabili, e nella irrequieta mutabilità degli ordini pubblici sono essi soli gli immutabili, i sicuri organi del potere, i padroni.

*di Dino Mantovani, “La burocrazia” (inedito incluso in Id, Pagine d’arte e di vita, raccolte a cura Luigi Piccioni, Torino, Sten, 1915)