La solitudine dei lettori forti e l’enigma dei best seller

di Alfredo Sgarlato – Leggendo le statistiche, che vanno prese con AHSAle molle ma hanno sempre un fondo di verità, si scopre che solo il 38% degli italiani (poco più di un terzo) legge libri. Di questi la maggioranza legge una manciata di libri ogni anno; i lettori cosiddetti forti, che ne leggono più di dieci sono circa l’1% e quelli che ne leggono più di venti sono (siamo) circa cinquantamila. E cinquantamila sono i libri pubblicati in Italia ogni anno (1500 solo su Dante): il 90% di questi vende 0/1 copie, un libro di successo vende dalle tremila alle trentamila copie. Ricordiamo poi che il libro più venduto in Italia di tutti i tempi è “Signorsì” (oltre tre milioni di copie) di Liala e il più rubato è Siddartha di Hesse.

Ma allora, se si legge così poco, cosa fa sì che un libro diventi un best seller? Semplice: bisogna arrivare ai lettori occasionali o ai non lettori. Mentre nella libreria di un lettore forte difficilmente troverete un best seller, a parte alcuni casi a sé che poi vedremo, magari troverete invece l’opera completa di Vonnegut o di Gombrowitcz. Certo, chi non legge i best seller poi si becca le accuse di snobismo, ma lettori e non lettori sono proprio due mondi diversi (come se poi non esistesse uno snobismo populista, quello per cui gli intellettuali figli di papà negli anni ’70 votavano Potere Operaio e oggi guardano i reality).

Un bel trucco per scrivere un best seller è quello di riempire i romanzi di colpi di scena prevedibilissimi (magari riguardanti inesistenti società segrete) che chi non aveva mai letto un libro prima crede di capire al momento giusto. Conta lo stile, che deve essere semplice ma anche ampolloso (Thomas Bernhard, uno che mette un punto ogni tre o quattro pagine, infatti non vende molto). Contano, inoltre, i contenuti: funziona sempre il mettere una patina di pseudospiritualità superficiale e consolatoria, ma soprattutto tanti bei luoghi comuni.

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Una volta ho partecipato a una seduta collettiva di lettura. Una signora ha messo mano a uno dei best seller più amati degli ultimi tre secoli. Non credevo alle mie orecchie, mi aspettavo che ad un certo punto la protagonista dicesse “io gioco dove dice il mister…” (ma come si fa a non capire che un libro così è una presa in giro? Beh, basta essere non lettori…). Poi ci sono i casi – rari- di best seller meritati. A volte c’è un effetto esterno a fare da traino, come nello strano caso de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, lanciato da una trasmissione cult, forse solo perché aveva un titolo strano. O il caso di Roberto Saviano, che diventa un simbolo di passione civile.

E poi c’è la strana vicenda dei gialli italiani. Fino a una trentina di anni fa si pensava che i gialli – come anche la fantascienza – fossero di serie B. Quindi qualcuno si è letto seriamente Chandler, o Simenon o Jim Thompson, e ha capito che anche il giallo (o noir) nasconde tanti gioielli. D’altronde non sono noir anche i libri di Dostoevskij? Inizialmente valeva però una rigida clausola: i gialli dovevano essere americani o francesi, se no era robaccia. Solo in seguito qualcuno ha letto seriamente Scerbanenco e ha scoperto che anche i milanesi ammazzano (ma solo al sabato). Così è iniziata l’ondata del noir italiano, con grandi successi di pubblico e critica.

Perché i noir italiani piacciono tanto? Semplice, perché sono meglio del resto della letteratura italiana. Raccontano una storia, la raccontano dall’inizio alla fine (mi sono capitati per le mani un paio di romanzi italiani non noir in cui era chiaro che ad un certo punto l’autore non sapeva più andare avanti…), spesso con buone trovate linguistiche. Ma attenzione: Bruno Morchio, giallista e psicologo, dice che il trend dei gialli è già in discesa e il futuro del best seller è nei romanzi scritti da adolescenti quarantenni.

[** Tratto da «il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato», febbraio 2010]