Francois Truffaut, l’uomo che amava il cinema

di Alfredo Sgarlato – In occasione dei trent’anni della morte di Francois Truffaut riproponiamo, approfondendolo, l’articolo scritto per l’anniversario della nascita.


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Una volta un amica dell’università mi chiese: perché tutti quelli che se ne intendono di cinema adorano François Truffaut? Mi prese alla sprovvista, è una di quelle domande a cui verrebbe da rispondere: perché sì. Le risposi più o meno: perché raccontava storie normali come se fossero straordinarie. Anni dopo ho letto la stessa domanda fatta a un grande critico, Michel Ciment, e lui rispondeva: perché raccontava storie ordinarie come se fossero eccezionali. Il primo segreto di Truffaut era girare tutti il film come se fossero gialli (Hitchcock era il suo massimo idolo). Il secondo era che tutti i suoi film sono storie d’amore, anche quando raccontano una vendetta o la fuga dal riformatorio.

antoineTruffaut era figlio illegittimo. Non legò mai con la famiglia. Saltava la scuola per andare al cinema, vedendo anche tre film al giorno o lo stesso film tre volte, e intanto spiava le coppiette clandestine… Autodidatta, disertore dall’esercito, impara tutto dal cinema e tutto del cinema (ma è anche un divoratore di libri, che legge in ordine alfabetico). A 20 anni è il più cattivo e temuto dei critici cinematografici. Quando diventerà regista scriverà una lettera di scuse a tutti i registi che aveva stroncato. Inventa una nuova linea di critica cinematografica, la teoria degli autori, forse presa troppo alla lettera dai suoi seguaci.

Nel 1959 sconvolge il festival di Cannes col suo primo film “I 400 colpi” (modo di dire francese intraducibile in italiano e chissà perché non afherecambiato): un capolavoro girato da un debuttante di 26 anni (come già Orson Wells, altro suo idolo come Rossellini, con “Quarto potere”). Truffaut girerà ventuno film, i suoi temi forti sono la venerazione per la bellezza femminile, la passione per la vitalità dei bambini, i libri, l’amore folle. Nei primi dieci il tema più forte (e spesso non notato) è però la disubbidienza, lo scontro tra l’individuo e le regole, dove però sia il conformismo che l’anticonformismo possono essere fatali. Si cimenta nel noir (“La sposa in nero”, magnifico), nella fantascienza (“Fahrenheit 451”, da Bradbury, scelto perché contiene la scena che non avrebbe mai saputo scrivere: una donna che si suicida dandosi fuoco insieme ai suoi libri), nella commedia gialla (“Finalmente domenica”), nel melodramma estremo ( “Adele H.”,“La signora della porta accanto”).

Gioca coi generi rimanendo sempre fortemente autore, alla faccia di chi separa i due campi. Nei suoi film si compone sempre un menage a trois, da buon francese, ma non sempre il terzo è il rivale in amore: è il potere, il Padre che non ha avuto, è la società che opprime. Non è un regista politico, è un regista che fa film “politicamente”, come diceva l’amico-rivale Godard: contro le regole formali, commerciali, contro il suo stesso anticonformismo, quando girerà film straordinariamente classici come “L’ultimo metrò”. Anarcoide, si definisce un “monarchico socialista”, fa scoppiare la protesta studentesca nella primavera del ’68 guidando prima l’occupazione della Cinémathèque di Parigi (chiusa per i tagli) e poi del festival di Cannes, per poi raccontare il periodo a modo suo con “Baci rubati” e “Il ragazzo selvaggio”.

3057967438_59e45f8893Spielberg lo vuole in “Incontri ravvicinati del terzo tipo”: non è casuale, se c’è un uomo che merita di incontrare gli extraterrestri secondo il regista americano è proprio Truffaut. Racconterà poi che sul set di Spielberg si è molto annoiato, ma almeno aveva tempo per scrivere. Nel finale della carriera, malato, tratta sempre più del rapporto con la morte, eppure ne esce sempre una straordinaria vitalità. Ha amato Jeanne Moreau, Catherine Deneuve, Jaqueline Bisset, Fanny Ardant, beato lui. A noi non resta che adorare i suoi film.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato

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