Un ricordo personale di Gabriel Garcia Marquez (detto Gabo)

di Alfredo Sgarlato – In gran parte l’elenco dei premi Nobel è una sfilza di nomi oggi dimenticati oppure di grandi sottovalutati come Wislawa Szymborska, che il premio ha fortunatamente sottratto all’oblio. Tra le poche eccezioni c’è Gabriel Garcia Marquez, premiato nel 1982 e morto ieri all’età di ottantasette anni, compiuti da un mese e undici giorni. Marquez mise in crisi l’ortodossia critica del tempo: marxista militante rifiutava il cosiddetto “realismo socialista” per una narrativa lussureggiante intrisa di mito, favola e sensualità.

Allora per lui e per tutta la meravigliosa generazione degli scrittori latino-americani dell’epoca, Cortàzar, Scorza, Denevi, Bioy Casares, Ocampo, e molti altri tra cui il sommo Borges, più eccentrico e inclassificabile, si coniò la definizione di “realismo magico”. Il mio incontro con Marquez fu il peggiore possibile: una professoressa, contro i Bukowsky e i Miller che noi giovinastri amavamo, ci disse che l’unico libro che l’aveva emozionata veramente tra i contemporanei era “Cent’anni di solitudine”.

Sapete quanto può essere testone un adolescente, e in coro pensammo: non lo leggerò mai. Per mia fortuna solo le mucche non cambiano idea, mi capitò in casa una copia del libro e lo lessi tutto d’un fiato (426 pagine) nel corso di un viaggio in treno Albenga-Padova. Negli anni universitari divorai tutte le opere di Marquez, i racconti meravigliosi di “La incredibile e triste storia della candida Erendira e della sua nonna snaturata”, il debutto “Foglie morte” ancora fortemente influenzato da Faulkner, il magmatico e joyciano flusso di parole de “L’autunno del patriarca”, fino a “L’amore ai tempi del colera”, il preferito dall’autore e il libro che divide in due i fan, ultimo capolavoro (anche per me), o primo dei deludenti.

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Già, perché l’autunno del patriarca Marquez è una serie di libri non eccezionali, stanchi e privi del guizzo del genio. Fa eccezione “Vivere per raccontarla”, un autobiografia magica e onirica come le opere di narrativa. Vi si raccontano anche gli anni vissuti in Italia, quando Marquez studiava cinema e sognava di diventare un Fellini o un Buñuel (carriera che sta facendo, con buoni risultati, il figlio Rodrigo). È invece diventato scrittore, e non uno qualsiasi, ma nientepopòdimenoché Garcia Marquez. Oggi in tv Beppe Severgnini commentava che con la morte di Marquez forse è finito davvero il ‘900, che qualcuno ha definito sciaguratamente il secolo breve. Io penso che la cultura del ‘900, i suoi miti artistici, siano pienamente in vita.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato